Biography, reviews, texts

An interview with Cesare Bedognè

An interview with the photographer (Italian/English), from the catalogue published in September 2009 by Creval Foundation
10/02/2019
Self Portrait (from the Broken Images series, Prasomaso Sanatorium)
UNA INTERVISTA A CESARE BEDOGNÈ

A CURA DI RINO BERTINI




Che cos’è per te la fotografia ?

La necessità e la vertigine dello sguardo, l’avventura della visione.
Sebbene tutte le arti visive consistano, in una certa misura, in una rappresentazione dello sguardo, solo la fotografia consente di coglierlo, per cosi’ dire, allo stato puro. Credo che la ricerca dell’inquadratura sia un adeguamento della visione a una necessità spirituale: l’occhio forma un’immagine che a sua volta, attraverso le sue risonanze interiori, trasforma lo sguardo, rifocalizzandolo.

Mi interesserebbe approfondire questo ultimo punto...

A volte basta un raggio di luce in una stanza vuota; le ombre indistinte di uno specchio corroso, una finestra infranta. L’occhio viene assorbito da quella luce, si perde in quel vuoto in attesa, finchè essi sembrano quasi risponderti, con uno sguardo di rimando. Allora la luce e la sua purezza, la solitudine di un’assenza, sprofondano negli spazi piu’ crepuscolari della psiche, trovano echi nelle camere della memoria, si riflettono nei molteplici specchi dell’anima. E lo sguardo si ricostruisce su questi echi, su quelle immagini riflesse, fino allo strano istante in cui l’interno e l’esterno, l’occhio e la cosa guardata, sembrano quasi dissolversi l’uno nell’altra. Allora tutto arde di una incandescenza misteriosa, nella dilatazione estrema dell’attimo: l’inquadratura non può essere che una, l’unica, necessaria. L’occhio non si dissolve nella cosa guardata per perdervisi ma per possederla, per intriderla della propria luce. La fotografia è la verità di quella luce.

Quali sono state le tue camere di risonanza?

Le luci misteriose delle finestre d’Olanda, le stanze devastate dei Sanatori di Prasomaso, le strade dei miei viaggi.

Questa concezione della fotografia come autoscopia mi riporta sia al titolo della tua prima mostra - Innerscapes, o Paesaggi Interiori - che al titolo delle tue personali di Milano e New York del 2004 - Gnothi Seauton, o Conosci Te Stesso - dove l’Oracolo di Delfi diveniva quasi lo sfondo mitico delle fotografie. I Greci pensavano infatti che il signore dell’Oracolo, Apollo dall’”occhio penetrante”, potesse raggiungere la conoscenza tramite la visione...

In quel tempo ero stato molto colpito da un testo di Giorgio Colli sulla nascita della filosofia, dove veniva avanzata l’ipotesi che i culti di Apollo e Dioniso trovassero una origine comune sul terreno dell’estasi, riferendosi ad una identificazione fondamentale di arco e freccia, occhio che guarda e cosa guardata, soggetto conoscente e cosa conosciuta.
Quelle idee venivano infatti a trovarsi in una sorprendente consonanza con la mia esperienza della fotografia: molto prima di avere letto il testo di Colli, quando inseguivo immagini nei miei vecchi Sanatori, mi ero già reso conto che la preda che stavo cacciando ero io stesso.

In che senso interpreti quindi la particolare “conoscenza” del titolo?

Proprio nel senso apollineo. La psiche, resasi manifesta a se stessa nello specchio dell’immagine, si conosce, trasfigurata in forma e luce. Una conoscenza inquietante, talvolta, come quelle immagini oniriche in cui ci si riconosce totalmente senza sapere esattamente perchè. Allo stesso modo la fotografia ti appartiene eppure non è mai interamente tua: uno straniero rimane in attesa, dall’altra parte dello specchio.
Come l’anima i cui confini, secondo Eraclito, non possono mai essere raggiunti, la fotografia abita uno spazio misterioso, che non può essere completamente decifrato; a volte le fotografie mi sono persino apparse come segni, o oscuri presagi...
Ad ogni modo, queste intuizioni mi avevano suggerito appunto un collegamento poetico tra i vecchi Sanatori di Prasomaso e l’Oracolo di Delfi – ricorderai fra l’altro che Apollo era anche il dio della luce - poi il riferimento mi è parso troppo pretenzioso e l’ho abbandonato. Comunque di quelle suggestioni non mi sono mai del tutto dimenticato.

Forse è una domanda indelicata, ma in che senso parlavi di presagi poco fa? Ti riferivi solo alle fotografie di Prasomaso o anche ad altri tuoi lavori?

Preferirei non parlarne, anche perchè non desidero che alle fotografie venga associata una chiave di lettura privilegiata, legata alla mia storia personale. Comunque, non mi riferivo soltanto ai Sanatori... Considera ad esempio la fotografia scattata a Delft nel 1996, nella serie Innerscapes. Essa sembra quasi prefigurare, con spaventosa chiarezza, quello che sarebbe poi accaduto. Quella Porta Oscura avrebbe presto inghiottito tutto quello che mi apparteneva: la mia piccola valigia di forme fragili, sussurri, leggerezza. Rimane una giacca appesa all’attaccapanni, in una stanza vuota. E le immagini della vita, irreali, fluttuanti nello specchio.

Quali sono i fotografi che ti hanno maggiormente interessato?

Josef Sudek, Bill Brandt, Robert Frank. Il vicolo di Halifax di Bill Brandt è stato quasi un’illuminazione: quell’immagine mi ha rivelato in un istante il carattere surreale, quasi metafisico dell’immagine fotografica. Devo confessarti però che la prima scintilla è venuta dal cinema, attraverso la visione di opere quali Lo Specchio di Tarkovskij, Ordet di Dreyer e 8 ½ di Fellini. Mi ha interessato molto anche Michelangelo Antonioni. Ma il regista che mi ha forse toccato di piu’ è stato Ingmar Bergman. La luce di Bergman e Nykvist, piu’ che essere proiettata sul paesaggio o sui volti degli attori, sembra quasi provenire dall’interno della celluloide. Pensa ad esempio alla sequenza d’apertura di Persona, che è quasi pura fotografia, come del resto il finale de L’Eclissi di Antonioni... Questo tipo di fotografia non ha nulla di descrittivo: essa svela immediatamente, con enigmatica nettezza, il significato interiore dell’immagine.
Non pensare però che la fotografia sia stata per me un succedaneo del cinema: mi interessa molto il carattere autoreferenziale dell’immagine fotografica; il fissarsi del tempo interiore nella forma; la sua apertura di senso, piu’ affine alla poesia che alla narrazione; la magia che consente di trasformare, in un istante, la percezione stessa del mondo in espressione creativa.

Il tuo riferimento all’apertura di senso dell’immagine fotografica mi ha ricordato alcune questioni sollevate da Michelangelo Antonioni in Blow-up e Professione Reporter. Uno dei temi di Blow-up era proprio l’ambiguità del rapporto tra l’individuo e la realtà, che in quel film era mediato appunto dalla fotografia. Nell’opera di Antonioni la riproduzione fotografica del reale, intesa come massima oggettività, sembra confinare con l’indecifrabilità. Il regista ha anche sostenuto, in un’intervista, il carattere illusorio del cinéma vérité. Ogni inquadratura, infatti, riflette una scelta ben precisa, un determinato atteggiamento rispetto alla realtà... Credi che le stesse obiezioni possano essere mosse al reportage fotografico?

Non ho mai creduto molto al significato documentario della fotografia. Orson Welles diceva che la macchina da presa è molto più che un apparato di registrazione: è un medium attraverso il quale ci giungono messaggi da altri mondi. Questa osservazione mi pare cogliere una verità fondamentale che, quando si lavora, è un’evidenza per l’istinto.
Mi sembra insomma che, attraverso la fotografia, l’intensità della visione possa varcare l’opacità dell’apparenza per dare forma a un mondo indipendente, quasi una metamorfosi del reale, dove le cose hanno un senso profondamente diverso da quello ordinario. Al pari della poesia, la fotografia permette di cogliere i momenti di transizione, gli strani punti di passaggio, i silenzi “in cui le cose si abbandonano e sembrano vicine a tradire il loro ultimo segreto”. In questo senso l’ambiguita’, il mistero, sono alla radice stessa della rappresentazione.

Ho spesso notato una forte discrepanza tra quello che la filosofia ha pensato della fotografia e quello che la fotografia è stata per i fotografi. Mentre Massimo Cacciari, in un suo scritto, mette in luce proprio il carattere gnostico-demiurgico della fotografia, molti grandi fotografi, come Paul Strand o Edward Weston, sembrano invece individuare l’essenza dell’espressivita’ fotografica proprio in una inevitabile aderenza alla realtà...

L’apparente trasparenza della fotografia ha generato, storicamente, una moltitudine di estetiche di stampo realista dove la specifica evidenza dell’immagine fotografica è stata scambiata per oggettività. In effetti mi sembra che sia proprio la sua stessa evidenza a conferire alla fotografia un carattere quasi spettrale, sommergendo l’immagine di ansia metafisica “a forza d’esattezza” cosi’ come, in letteratura, nella scrittura di Kafka il nitore della parola si traduce in allucinazione.
Ma devo confessarti che le teorie, in fotografia, mi interessano poco: credo che quando si lavora sia importante mantenere la mente libera, lasciare spazio all’istinto, abbandonarsi all’avventura della visione. Allora rimane soltanto lo sguardo, puro.

A proposito di esattezza, so che in passato ti sei occupato anche di matematica, laureandoti con una tesi sulla Teoria della Relatività, e che hai poi svolto attività di ricerca in varie università europee. Pensi che ci sia qualche rapporto tra la tua formazione culturale scientifica e l’interesse per la fotografia?

Sarei tentato di risponderti con un secco no ma temo di doverti dire di sì. Non posso negare che gli studi astratti mi abbiano in qualche modo formato anche dal punto di vista estetico: la ricerca dell’essenzialità, della semplicità della forma sono anche alla radice della speculazione scientifica, come del resto la ricerca della verità. Nella scienza la verità spesso coincide con la bellezza e forse questo vale anche per la fotografia, non trovi?
Ma l’insegnamento forse più profondo che ho ricavato dagli studi fisico-matematici è la necessità di uno sguardo umile davanti al mistero delle cose. Credo che sia l’arte che la scienza trovino un’origine comune in questo sentimento di purezza. Bill Brandt diceva che il fotografo deve conservare in sè qualcosa della ricettività di un bambino che guarda al mondo per la prima volta, o di un viaggiatore che entra in una terra sconosciuta. E’ forse la cosa più bella che abbia mai letto sulla fotografia.

Quando hai iniziato a fotografare?

Non riesco neppure a ricordarmelo, ma posso dirti che ho incominciato a prendere sul serio la fotografia nel corso di un viaggio in Norvegia, quando avevo appena iniziato gli studi universitari. Sono stato suggestionato in modo indelebile dalla luce onirica, sottilmente inquietante, delle Notti Bianche. E’ stato allora che ho iniziato a pensare che l’anima potesse scriversi in parole di luce.

Che cosa ti colpisce anzitutto in una fotografia?

Direi il ritmo dell’immagine, la distanza e i vuoti tra le cose, gli equilibri sottili di ombra e luce. Allo stesso modo quello che ci emoziona, nella musica, è il respiro, il silenzio tra le note.
Il ritmo delle immagini fotografiche risente di variazioni anche impercettibili della posizione della macchina fotografica e della messa a fuoco: come diceva Cartier-Bresson, basta che il fotografo giri la testa di una frazione di millimetro, per fare convergere delle linee, variare il chiaroscuro e alterare le prospettive. Ma, tra le infinite inquadrature possibili, solo una si distingue per uno strano carattere di inevitabilità. Quando essa si forma nel mirino o sul vetro smerigliato, sembra quasi di riconoscerla, come se fosse già esistita da sempre, nella camera oscura dell’anima.

E’molto importante per te il lavoro in camera oscura?

La camera oscura è uno spazio simbolico, dove si scende nell’oscurità per portare alla luce le visioni: un luogo magico, alchemico.

Quando hai iniziato a stampare?

Ho allestito la mia prima camera oscura a Groningen, in Olanda, dove ho vissuto a lungo negli anni ’90 e ho iniziato a lavorare a Leaving e Innerscapes. Tutto quello che so sulla stampa fotografica l’ho imparato allora. L’ossessione della luce, generatasi in quel primo viaggio in Norvegia, ha preso definitivamente possesso di me in Olanda. Quando ripenso a quei giorni lontani mi assale ancora la stessa febbre di allora, ricordo tutto in ogni dettaglio: la luce crepuscolare, misteriosa, della lampada di sicurezza; l’odore amaro dello sviluppo; quello acidulo, penetrante del bagno d’arresto e del fissaggio. E poi il viraggio - acre, solforoso - dove si completava la trasformazione alchemica....
Mi rivedo a vent’anni: spiritato, insonne, divorato dai demoni della luce. Il foglio bianco, appena esposto, scivola nella bacinella dello sviluppo: fuori è il silenzio profondo della notte scandito dal tic-tac regolare del timer. All’inizio sembra non accadere nulla, poi le forme iniziano lentamente ad apparire - fragili, leggere - il mondo torna a rivelarsi come per la prima volta, nella sua essenza spettrale. Non mi sono mai stancato di assistere alla nascita di un’immagine.

Molte delle fotografie di Innerscapes e Leaving sono state realizzate proprio in Olanda; immagino che siano stati anni fondamentali per l’elaborazione del tuo linguaggio fotografico ...

C’era un tempo in cui vedere era scoprire. Portavo ovunque la macchina fotografica, allora, anche al supermercato, e tutto era pieno di mistero. Non vedevo i nomi delle cose, ma le cose stesse; vivevo nell’innocenza dello sguardo.

Nello scritto che introduce la tua personale di Londra, descrivi la fotografia come una “cristallizzazione d’interiorità psichica”, ora sembri riferirti invece a un movimento verso le “cose stesse”...

Queste due dimensioni si sovrappongono: la fotografia è compenetrazione. La rivelazione di se stessi e del mondo si risolve in uno stesso movimento, si svela nello stesso istante. Non credo che questi due aspetti possano essere mai distinti.

Potresti introdurre brevemente le tue Immagini Infrante, la serie di fotografie riprese nel Sanatorio dismesso di Prasomaso?

Potrei iniziare a elencare qualche suggestione letteraria, sia pure indiretta, come La Montagna Incantata di Thomas Mann o La Terra Desolata di T.S.Eliot, dalla quale è stato tratto anche il titolo, Immagini Infrante, ripreso da La Sepoltura dei Morti.
Questo titolo, oltre che a un paesaggio di rovine, allude anche a una lacerazione interiore: un’esperienza di lutto che ha generato appunto una trasformazione o rifocalizzazione dello sguardo. Considero il lavoro come una meditazione sulla morte, sull’assenza, sul silenzio della luce. In questo senso Broken Images, anzichè documentare lo sfacelo, intende piuttosto indagare l’enigma.
Non intendo però imporre il mio punto di vista come privilegiato: mi sembra che l’allucinazione della fotografia alluda, quasi allo stesso livello delle immagini oniriche, a percorsi di senso non univoci. Credo che la fascinazione risieda sempre nell’immagine stessa, al di là dei possibili significati simbolici che possono esserle attribuiti: per lo stesso motivo non si può interpretare un sogno senza tradirlo.

Quando sei capitato per la prima volta nei Sanatori di Prasomaso e che cosa ha significato quell’incontro?

Ho scoperto quel luogo inquietante per puro caso, alla fine degli anni ‘80, durante una passeggiata invernale nei boschi. Non appena entrato ho avuto la sensazione di aver varcato la soglia dello sconosciuto: il mistero stesso sembrava aprirsi, nudo, davanti ai miei occhi.
Da quel giorno non ho mai cessato di vagare lungo corridoi interminabili, di salire scale che sembrano condurre solo ad altre scale, ad altri corridoi dove s’affacciano stanze devastate abitate da falsi specchi, soffitti disgregati, finestre infrante.
Allora c’era ancora ovunque una agonia diffusa: bottiglie d’ossigeno arrugginite, materassi marcescenti impilati lungo i corridoi, vecchie cartelle cliniche ingiallite; sussurri e grida di tempi lontani.
Poi, negli anni, il Sanatorio è stato a poco a poco svuotato di tutto, anche di memorie: ora appartiene solo a se stesso, immerso nella luce rarefatta del sogno.
Rimane solo il vento a sibilare per vaste stanze vuote; pozze di luce che filtrano da tapparelle a brandelli e porte socchiuse, frantumi di vetro che rispecchiano monti lontani.

In che rapporto si trovano Leaving e Innerscapes rispetto alle Broken Images?

Le immagini di Innerscapes rimangono il fondamento di tutto quello che ho fatto successivamente. Ho raccolto in Innerscapes molte delle fotografie realizzate in Olanda, la misteriosa tristezza della mia vita di allora, i primi strani presagi. Ogni fotografia è quasi un autoritratto. Perciò sono queste, forse, le fotografie a cui mi sento più legato, anche mio malgrado.
Leaving si concentra piuttosto sugli orizzonti del viaggio - solitudine, leggerezza, nostalgia – sull’ansia e l’ebbrezza del viandante. Il titolo va inteso quindi nel duplice senso di partenza e abbandono arrivando ad alludere, in alcune immagini, a quella partenza definitiva che è la morte.
Al di là di questa differenza tematica, le due serie rimangono comunque strettamente correlate: infatti Leaving e Innerscapes sono state a volte esibite in uno stesso spazio espositivo, come è accaduto recentemente al Museo di Fotografia dell’Aja in occasione della mostra Empty Paradise e come accadrà presto al Museo di Storia dell’Arte di Sondrio. Si è invece deciso di isolare le Broken Images a Palazzo Sertoli per rispettarne l’unità di luogo.

Nel tuo lavoro utilizzi delle tecniche particolari?

Piuttosto che sperimentare con la tecnica, ho sempre preferito rispettare l’autenticità della visione: non credo quindi che ci sia molto da dire, utilizzo tecniche e dispositivi del tutto tradizionali. Lavoro con una vecchia Hasselblad 6x6 dotata di due obiettivi (un 80 mm e un 150 mm) - la serie dei Sanatori, ad esempio, e’ stata ripresa con questo dispositivo - e con una piccola Leica 35 mm, che utilizzo soprattutto quando viaggio.
Stampo poi le fotografie su carte baritate alla gelatina d’argento. Prediligo carte multicontrasto, in modo da poter intervenire più efficacemente sui lumi e sulle ombre, anche localmente. Di solito sottopongo poi le stampe a un leggero viraggio al selenio, per garantire una adeguata conservazione d’archivio e accrescere il contrasto delle ombre. Il particolare tono freddo assunto da alcune carte fotografiche quando virano nel selenio sembra anche immergerle in una atmosfera di particolare “distacco”, che mi piace molto.

Il tuo stile di stampa mi sembra prediligere contrasti piuttosto accentuati...

Non mi interessa tanto “descrivere” la realtà quanto coglierne le strutture fondamentali nei termini di forma e luce, se necessario anche a spese del dettaglio. In questo cerco di rispettare l’immediatezza dello sguardo, che delle cose coglie anzitutto le linee essenziali. L’eccessivo dettaglio mi sembra a volte frammentare e disperdere l’unità della visione, tradendone l’autenticità. “Forzare” leggermente il contrasto mi aiuta quindi ad adeguare l’occhio meccanico della fotocamera ad una visione umana, emotiva, selettiva.
A proposito, visto che questa conversazione ha preso le mosse dall’Oracolo di Delfi, mi piacerebbe concluderla nello stesso luogo. Come ricorderai, oltre a Gnothi Seauton, sulle vecchie pietre di Delfi era inciso un secondo precetto: Meden Agan, o Nulla in Eccesso. Secondo Eraclito, le antiche sibille mostravano appunto “cose solenni, disadorne e senza belletto”. Ecco, se mi fosse consentito interpretare liberamente il Meden Agan delfico come criterio di stile, mi piacerebbe che lo stesso potesse essere detto delle mie fotografie.
























AN INTERVIEW WITH CESARE BEDOGNÈ

EDITED BY RINO BERTINI




What is photography for you ?

The necessity and the vertigo of the gaze, the adventure of seeing.
Although all visual arts consist, up to a certain extent, in a representation of the gaze, photography alone allows one to capture it, so to speak, at the pure state. I believe that photography is an adaptation of vision to a spiritual necessity: the eye forms an image which in its turn, through its inmost resonances, refocuses and transforms the gaze itself.

I would be interested in delving into this last point...

Sometimes it suffices a shaft of sunlight in an empty room, some vague shadows in a corroded mirror, a shattered window. The eye is absorbed by this light, roams in that expectant void, until they almost seem to reply, looking back at you. Then the light and its purity, the solitude of an absence, suddenly sink into the twilight regions of the psyche, echo in the chambers of memory, reflect in the innumerable mirrors of the soul. And the gaze is reshaped by these echoes, by those reflected images, until the strange instant when interior and exterior, the eye and the things looked at, almost seem to dissolve one in another. Then everything burns in a mysterious incandescence, in the extreme dilation of time: there may be one shot only, the necessary shot. The eye does not dissolve in the things looked at for disappearing, but to soak them into its own light. The photograph is the truth of that light.


Where did you find your chambers of resonance?

In the mysterious glimmers of Dutch windows, through the ravaged rooms of the decayed Prasomaso Sanatorium, along the roads of my journeys.


Your interpretation of photography as autoscopy brings me back to the title of your first exhibition – Innerscapes - and to the one of your solo exhibitions in Milan and New York in 2004 - Gnothi Seauton or Know Thyself - where the Oracle at Delphi almost became the mythical background of the photographs. The Greeks thought that the lord of the Oracle, the “pierceing eyed” Apollo, could attain knowledge through vision...

At that time I had been struck by a book by Giorgio Colli on the birth of philosophy where it was put forward the hypothesis that the cults of Apollo and Dyonisus could find a common origin on the grounds of ecstasy, referring to a fundamental identification of bow and target, looking eye and things looked at, knowing subject and known object. Those ideas happened to be in a surprising consonance with my own experience of photography: long before having read the book by Colli, when I was stalking for images in my old Sanatorium, I had already realised that the prey I was chasing was my self.

In which sense do you interpret then the special “knowledge”of the title?

Just in the Apollinean sense. The psyche, made visible in the mirror of the image, knows itself, transfigured into light and form. This is disturbing knowledge sometimes, as the one conveyed by those oneiric images in which one identifies totally without exactly knowing why. The photograph is your own and yet never entirely yours: a stranger awaits, on the other side of the mirror. As the soul whose boundaries, according to Heraclitus, can never be reached, photographs inhabit a disquieting opennes that cannot be completely deciphered. Sometimes photographs have even appeared to me as signs, or obscure omens...
Anyhow, these insights suggested me then to establish a poetic connection between the old Prasomaso Sanatorium and the Oracle at Delphi - you will remember that Apollo was also the lord of light - but afterwards the reference seemed too pretentious and I abandoned it. Anyway I never completely forgot those fascinations.

It may be a tactless question, but in which sense were you talking about omens just now? Were you referring to the Prasomaso photographs or to other works as well?

It is very hard for me to talk about it, also because I don’t like the photographs to be associated with a privileged meaning, connected with my personal history. Anyhow, I wasn’t thinking only about the Sanatorium. Consider for instance the photograph taken in Delft in 1996, from the Innerscapes series. The picture seems to forebode, with frightful clarity, what would soon have happened. That Dark Door was going to swallow everything that belonged to me: my small suitcase of frail forms, whispers and lightness. It remains only a jacket hung on a peg, in an empty room. And the images of life, unreal, fluctuating in the mirror.

Which photographers have interested you the most ?

Josef Sudek, Bill Brandt, Robert Frank. Bill Brandt’s Halifax alley has been almost an enlightenment, revealing to me at once the intrinsic surrealist, almost metaphysical character of photography. I must confess you, however, that the first spark came to me from cinema, through the vision of works such as Mirror by Tarkovskij, Ordet by Dreyer and 8 ½ by Fellini. I have also been very interested in Michelangelo Antonioni. But the director who probably touched me the most is Ingmar Bergman. The light of Bergman and Nykvist, rather than being projected on a landscape or on the actors’ faces, seems to come from the inside of the celluloid. Think for instance of the opening sequence in Persona, which is almost pure photography, as well as the final sequence of The Eclipse by Antonioni... This kind of photography has nothing descriptive: it reveals immediately, with enigmatic clarity, the inner meaning of images.
But do not think that photography has been a succedaneum of cinema to me. On the contrary I am fascinated by the self-referential character of photographic images, by the condensation of inner time into form; by their opennes of sense, closer to poetry than to prose; by the magic that allows one to transform, in an instant, a perception into creative expression.

What you have just said about the opennes of sense of photographic images reminded me of some points raised by Michelangelo Antonioni in Blow-up and The Passanger. One of the main themes in Blow-up was the ambiguity of the relation between the individual and reality, that in the movie was mediated just by photography. In Antonioni’s work the photographic reproduction of the real, meant as the utmost objectivity, seems at times to confine with indecifrability. In an interview, the director has also mantained the illusory character of the cinéma vérité. Each shot reflects in fact a specific choice, a particular attitude towards reality... Do you believe that the same objections could be raised to the photographic reportage?

I have never believed much in the documentary meaning of photography. Orson Welles said once that the camera is much more than a recording apparatus: it is a medium via which messages reach us from another world. This statement conveys a basic truth that, when shooting, is an evidence for the instinct. It seems to me that, via photography, intensity of vision can overstep the opacity of appearance to shape an independent world, almost a metamorphosis of the real, where things acquire a sense profoundly different from the ordinary one. As well as poetry, photography allows one to capture the fleeting moments of transition, the strange passages, the silences in which “things seem to surrender and be about to betray their last secret”. In this sense the ambiguity, the mystery, lie at the very root of the representation.

I often noticed a sharp discrepancy between what philosophy has thought of photography and what photography has been for photographers. While Massimo Cacciari, in one of his essays, singles out just the gnostic-demiurgic character of photography, many great photographers, such as Paul Strand or Edward Weston, seem to identify instead the essence of photographic expression in an unavoidable adherence to reality...

The apparent transparency of photography has generated, historically, a moltitude of realist aesthetics where the specific evidence of photographic images is mistaken for objectivity. It seems to me that it is just this peculiar evidence that confers to photography an almost spectral character, submerging the image of metaphysical anxiety “by means of exactitude” as, in literature, the sharpness of words - in Kafka - translates into hallucination.
But I have to confess you that theories, in photography, do not interest me in the least. While at work it is important to leave the mind unrestrained, to allow the instinct to wander freely, to experience the adventure of seeing. Then the gaze remains alone, pure.

A propos of exactitude, I am aware of your background in mathematics and theoretical physics. You graduated with a thesis on Einstein’s Theory of Relativity and you have then performed research work in various European universities. Do you feel there is any connection between your studies and the interest for photography?

I would be very tempted to reply with a curt no but I am afraid I have to say yes. I cannot deny having been shaped somehow by my abstract studies, even aesthetically: the seek for essentiality, for the simplicity of form is also at the root of scientific speculation, as well as the quest for truth. In science truth often corresponds to beauty and perhaps the same holds for photography, don’t you think?
But the deepest teaching that I gained from my formal studies is perhaps the necessity of an humble look on the mystery of things. I believe that art and science find a common origin in this feeling of purity. Bill Brandt said that the photographer should keep in him something of the receptiveness of the child who looks at the world for the very first time or of the traveller who enters a strange country. This may be the most beautiful thing I have ever read on photography.

When did you start taking pictures?

I cannot even remember that, but I can tell you that I began to take photography seriously in the course of a journey to Norway, when I had just started my university studies. I have been indelibly influenced by the oneiric, subtly disquieting light of the White Nights. It was then that I started to think that the soul could be written in words of light.

What strikes you first of all in a photograph?

I would say the rhythm of the image; the distance and the empty spaces among things, the delicate balances between light and shadow. In much the same way what moves us in music is the breath, the silence among the notes. The rythm of photographic images is sensitive to even imperceptible variations of the camera position and lens focusing: the photographer just needs to move his head by a fraction of a millimiter, as Cartier-Bresson once said, to bring coincidence of line, alter the chiaroscuro and modify perspectives. But, among the infinite possible shots, one only is distinguished by a strange character of inevitability: when it takes shape in the viewfinder or on the ground glass, you almost seem to recognise it, as if it had always existed, in the dark-room of the soul.

Is dark-room work very important to you?

The dark-room is a symbolic space, where one descends in darkness to bring visions to light: an alchemic, magical place.

When did you start printing?

My first dark-room was set up in the Netherlands, where I lived for long in the 90’s and started working at the Innerscapes and Leaving series. All I know about printing was learned back then. The obsession for light, generated by that Norwegian journey, took complete possession of me in Holland.
When I recall those days far-off I am still seized by the same fever, I remember everything in each tiny detail: the mysterious twilight of the safety-lamp; the bitter smell of the developer; the pungent, sour one of the stop-bath and the fixer. And then the toner – acrid, sulphurous – where the alchemic transformation was completed...
I see myself back in my twenties: possessed, insomniac, devoured by the demons of light. The white sheet, just exposed, sinks into the developer’s tray: outside is the deep silence of night scanned by the regular ticking of the timer. In the beginning nothing seems to happen, then the forms slowly start to appear – delicate, frail – the world seems to reveal itself for the first time: an uncanny apparition. I never got tired of witnessing to the birth of an image.

Many of the photographs belonging to Innerscapes and Leaving were taken in the Netherlands; I imagine that your Dutch years have been fundamental in the search of your own language in photography...

There was a time when seeing was discovering. I used to bring my camera everywhere, back then, even in supermarkets, and everything was full of mystery. I did not see the names of things but the things themselves; I lived in the innocence of the gaze.

While in the introduction to your Curzon Soho exhibition in London you described photography as a “crystallization of psychic interior”, now you seem to refer instead to a movement towards the “things themselves”...

These two dimensions superimpose: photography is compenetration. The revelation of the world and of the inner self are but the same movement, they unveil in the same instant. I do not think that these two aspects can ever be distinguished.

Would you like to introduce briefly your Broken Images, the photographs taken at the decayed Prasomaso Sanatorium?

I could begin to list a few literary suggestions, even though indirect, as Thomas Mann’s Magic Mountain or The Waste Land by T.S.Eliot, from which the title was excerpted, from The Burial of the Dead. This title, besides referring to a landscape of ruins, also alludes to inner laceration: an experience of mourning that generated a transformation, or refocusing of the gaze. I consider the work as a meditation on death, on absence, on the silence of light. In this sense Broken Images, rather than documenting a dissolution, attempts to investigate the enigma.
Anyhow, I do not mean to impose my point of view as privileged: it seems to me that the hallucination of photography alludes, much in the same way as oneiric images, to various horizons of sense. But the fascination always resides in the image itself, beyond any symbolical meaning that can be attached to it: in much the same way one cannot interpret a dream without betraying it.

When did you happen to enter the Prasomaso Sanatoriums for the first time and what did it mean to you?

I discovered that disquieting place by sheer chance, during a winter walk in the forest, back in the 80’s. As soon as I walked in, I had the feeling I had crossed the doorway of the unknown: mystery itself seemed to open, bare, in front of my eyes. I began then roaming along endless corridors, climbing stairs leading only to other flights of stairs, to other corridors where ravaged rooms did appear, inhabited by false mirrors, crumbled ceilings, shattered windows.
A breath of malady still pervaded the place in those early days, a diffused agony: rusty oxygen bottles, rotting matresses piled up in the halls, old case-histories turned yellow; whispers and cries of old.
Then over the years, little by little, the Sanatorium has been divested of everything, even of memories: now it belongs only to itself, immersed in the rarefied light of dreams.
Only the wind remains hissing in vast empty rooms, pools of light filtering through tattered blinds and doors ajar, splinters reflecting distant mountains.

Which is the relation between the Sanatorium series and the Leaving and Innerscapes works ?

The pictures belonging to the Innerscapes series remain at the root of everything I have done afterwards. I collected in Innerscapes most of the photographs I took in Holland, the mysterious gloom of my Dutch years, the first strange omens. Each photograph is almost a self-portrait. These are perhaps the pictures I feel more connected to, even against my will.
Leaving is rather focused on the horizons of travelling; solitude, lightness, nostalgia; on the anxiety and elation of the wanderer. The title is thus meant in the double sense of departing and abandoning alluding also, in some images, to that final departure which is death.
But, besides this thematic difference, the two series remain tightly interwoven: in fact Leaving and Innerscapes have been exhibited at times in the same space, as it happened last year on occasion of the Empty Paradise exhibition at the Museum of Photography in The Hague and as it will happen soon at the Museum of History and Art in Sondrio. The pictures taken at the Prasomaso Sanatorium will be isolated instead at Palazzo Sertoli, to respect the unity of place.

Do you make use of special techniques in your work?

Rather than experimenting with technique I have always preferred to respect the authenticity of vision. Thus I do not think I have much to say, my techniques and devices are utterly traditional. I mostly work with an old Hasselblad 6x6, equipped with two lenses (a 80mm and a 150mm) – which I used for instance in the Sanatorium series – and a small Leica 35mm, which I mostly use when travelling. I print then my photographs on fiber-based, baryth silver gelatin paper. I prefer multicontrast papers in order to gain a better control on the shadows and the highlights also locally. I usually tone then the prints slightly in selenium to guarantee archival preservation and enhance the contrast in the shadows. The cold tone that some photographic papers assume in selenium seems to confer on them a special “detachment”, that I like very much.

Your printing syle seems to privilege rather accentuated contrasts..

I am not very interested in “describing” reality but rather in capturing its fundamental structures in terms of light and form, if necessary even at the expense of detail. In this way, I try to respect the immediacy of vision catching the fundamental lines of things in the first place. An excessive attention to detail may result in a fragmentation and dispersion of the unity of vision, betraying thus its authenticity. “Forcing” the contrast slightly helps me then to adapt the mechanical eye of the camera to the emotionality and selectivity of human vision.
By the way, since this conversation started at the Oracle at Delphi, I would like to end it in the same place. As you will remember, besides Gnothi Seauton, there was a second precept engraved on the old stones of Delphi: Meden Agan, or Nothing in Excess. According to Heraclitus the ancient sybils showed “things solemn, unadorned and unembellished”. If I were allowed to interpret freely the delphic Meden Agan as criterion of style, I would like that the same could be said of my photographs.