Biography, reviews, texts
Ombre d'Europa, short stories by Cesare Bedognè
30/11/2016
Ombre d'Europa, short stories by Cesare Bedognè (in Italian)
Nulla Die 2016
Cover photograph by Cesare Bedognè (Utrecht, 1992)
Il concerto
Mio padre, che tendeva una mano fitta di vene oltre il tavolo azzurro, bisbigliando:
“Non esiste, la Morte: tutto ritorna, nulla rimane, rugiada del tempo”.
Dopo lunghi mesi malati di nebbia e nostalgia, mi ritrovai a vagare come in sogno per le stradine solitarie d’una piccola cittadina ai confini del mondo, oltre l’infinito tedio e la tristezza dei giorni.
Avevo scritto “Lisbona”, inizialmente, sul biglietto Interrail, ma alcune coincidenze mancate, la calura insopportabile delle stazioni; un ghigno stranamente beffardo, intravisto tra la folla di Barcellona, m’avevano di tappa in tappa, quasi inconsapevolmente, ricondotto sempre più a settentrione: Madrid, Parigi, Berlino.
Poi, a Copenhagen, anziché cambiare per Amsterdam, avevo preso quasi per gioco l’espresso notturno per Stoccolma, ma con l’idea di fermarmi soltanto un paio di giorni, per rivedere un amico fotografo.
Non riuscii però a rintracciare il vecchio Olof, al numero 14 di Sybillegatan, e finii per smarrirmi tra le viuzze medioevali e le piazze anguste di Gamla Stan.
Soltanto verso sera, ritrovata d’istinto la via del mare, mi ricordai dell’Ostello Chapman: bianco, spettrale veliero ai margini del porto, dove già m’ero rifugiato due anni prima, ma come a farlo apposta era stato appena occupata l’ultima branda ancora vacante.
Trascorsi così una notte inquieta, vagando lungo docks tetri e nebbiosi, nella perenne mezza luce dell’estate di Svezia.
Intirizzito e trasognato, con tutti i sensi acuiti dall’insonnia, all’alba mi diressi infine verso la ferrovia e in un’improvvisa febbre d’innocenza saltai su un vagone diretto in Norvegia.
Non appena varcato il confine, il giorno successivo, scesi alla prima stazione marittima e m’incamminai nella vasta e luminosa sera del Nord.
Soltanto una settimana di viaggio mi separava dalla mia prigione e già vagavo in estasi per le strade irreali, tra i rami dei pini che lasciavano intravedere ora le alte montagne dalle cime ancora innevate, ora le acque di madreperla del fiordo, sotto nuvole basse, bluastre.
Intanto pensavo allo strano destino che m’aveva nuovamente condotto lassù e mi pareva che la divina leggerezza di quella notte potesse giustificare ogni cosa, tutte le sofferenze passate, ogni dolore a venire: nulla aveva più importanza, oltre a quei pochi istanti di vita, a quella luce che trasfigurava ogni ciottolo della strada, e sentii d’essere finalmente tornato ad abitare la mia stessa anima.
Ai margini della cittadina, mi ritrovai a vagare tra i viali del vecchio cimitero, e incominciai a leggere ombre e silenzi sulle lapidi coperte di muschio. Furono le date, inizialmente, a polarizzare la mia attenzione; cercavo di cogliere delle relazioni, delle connessioni occulte tra i numeri: poi, in un attimo d’ineffabile distacco, iniziai come a intuire frammenti d’immagini, suoni, colori.
Mi parve improvvisamente inconcepibile che qualcuno potesse mai essersi chiamato Jon Arnesen e avesse sposato le trecce bionde d’una certa Lisa Kielland, nella primavera del ’34, per poi naufragare un qualunque numero di anni più tardi, ed essere infine seppellito accanto alle ossa oblunghe e scolorite di lei. Non so perché, ma proprio questo mi dispiacque enormemente: il fatto che, in questo caso, il conto degli anni non mi apparisse affatto importante… E chissà quali enormi e tremanti occhi blu, quale flebile accento poteva aver avuto una bimba, Elin Krund, spentasi a otto anni, nell’Ottobre del ’54, la bocca piena di nebbia salmastra, o quale sardonico ghigno doveva aver abitato il volto del pescatore Folvik, scomparso in un terrore di sangue e d’arpioni (seppi subito anche questo), nell’estate stranamente calda e assolata del ’25 (sì, senza alcun dubbio calda e assolata!).
E poco più lontano, tra i pini e le ombre cupe, un medico sgozzato dai lupi, in tempo di guerra, volti congelati di soldati: una pallida e silenziosa fanciulla fuggita in America e tornata a morire nella stanza dov’era venuta al mondo, con le gote macchiate di rosso e le labbra secche che bruciavano di febbre davanti ai fiori di campo d’una minuscola finestra affacciata sul fiordo.
Quelle vite perdute entravano così a far parte della mia, quasi che un fluido magnetico s’irradiasse dalle vecchie croci in una vertigine di luci, impressioni, stati d’animo; e neppure mi importava sapere se quella fosse la verità o semplici fantasticherie, tanto quelle immagini s’affollavano vive e nitide alla mia mente, come nel flusso allucinatorio d’una lanterna magica dell’irripetibile.
Mi riscossi solo quando udii il brusio sommesso d’una piccola folla che s’era nel frattempo assembrata presso il portale dell’attigua chiesetta di legno. M’accostai e seppi che stava per avere inizio un concerto d’organo. Il programma prevedeva alcuni preludi e corali di Bach, e una composizione che non conoscevo, Weigen Klagen Sorgen Zagen di Liszt.
Presi posto nello spazio oscuro, sotto vetrate policrome, mentre i lenti e austeri uomini del Nord s’incamminavano rigidamente lungo i banchi scricchiolanti.
L’incanto della notte d’estate aveva lasciato solo un tenue abbandono su quei volti concentrati e angolosi, che sembravano appartenere a tempi più antichi, ad ancor più cupi silenzi, e pensai che tutto ciò – l’improvvisa trasparenza d’uno sguardo, la fragile linea di una nuca - non potesse essere senza rapporti con le presenze sottili e vibratili che avevo avvertito poco prima, al cimitero.
I brividi misteriosi si moltiplicavano, le sfere di realtà s’intersecavano: tutto sembrava rimandare a un senso profondo e irraggiungibile.
Intanto l’organista inglese invitava lo sparso pubblico a radunarsi al centro della navata, dove a suo dire l’acustica era assai migliore, ma stranamente nessuno si mosse. Anche le giovani coppie sembravano come discoste tra loro, separate da un velo invisibile di solitudine, da un filo d’oro su un collo di neve, dallo scintillio d’un orecchino di perla.
Allora, dopo un inchino sgraziato, il musicista s’allontanò, rivolgendo le spalle alle poche decine d’occhi azzurrissimi e attenti, e aprì lentamente lo spartito davanti a sé.
Quindi, dopo un interminabile istante, incominciò a suonare.
Fin dalle prime battute, la musica s’impossessò del trasognato viandante che ero finalmente tornato a diventare.
Piuttosto che venire emessa dalle lunghe canne lucenti, essa pareva sgorgare da oscure cavità segrete, come dal profondo della mia stessa anima: ritrovavo, nella dolente purezza di quelle note, tutto il senso del viaggio, il mio essere stralunato, remoto e strano: le sentivo vibrare incontrollabili nel petto, lungo la gola, alle vene dei polsi, prima che potessero invadere lo spazio in un’onda di lancinante bellezza.
Per qualche istante, cercai di lottare contro quell’armonia insostenibile, che tutto a un tratto pervadeva ogni cosa, ma presto finii per cedere, e lasciai che le lacrime iniziassero a bagnarmi il volto come una limpida fonte di dolore.
Al termine d’ogni brano cercavo disperatamente di ritrovare il controllo delle emozioni, le forze che potessero sottrarmi a quell’incantesimo, ma restavo come inchiodato alla panca di legno, in attesa del vortice successivo, che di nuovo mi sprofondava in quella stessa luminosa sofferenza, riconducendomi a me stesso e all’occhio glauco ed enigmatico del mondo.
Il brano sussurrante di Liszt, che concluse il concerto quasi in sordina, m’inquietò in modo diverso e inesplicabile: d’improvviso l’istante si spezzò, le lacrime cessarono e il presente fu offuscato dalle ombre appena percettibili d’un futuro che intuivo denso di sventura.
Per la prima volta seppi che qualcosa di spaventoso mi stava aspettando, lungo il cammino, eppure nulla aveva davvero importanza, al di fuori di quegli attimi e di quella luce, dei pini ora azzurri nell’aria tersa: del sole rosso e freddo tramontato fin quasi a lambire la linea traslucida dell’orizzonte, nel bianco sogno della notte di Norvegia.
Quando feci ritorno al boschetto solitario dove avevo nascosto il sacco da viaggio tra i cespugli, abbracciai un tronco di betulla come un vecchio compagno di fortuna che si sfoglia lentamente nel silenzio dei giorni.
Poi mi distesi sulla rugiadosa terra e guardai semplicemente nel mondo e nella profondità della luce.
M’addormentai nel verde, purificato e finalmente felice, sotto la misteriosa vertigine d’un cielo disperato e cangiante.
Nulla Die 2016
Cover photograph by Cesare Bedognè (Utrecht, 1992)
Il concerto
Mio padre, che tendeva una mano fitta di vene oltre il tavolo azzurro, bisbigliando:
“Non esiste, la Morte: tutto ritorna, nulla rimane, rugiada del tempo”.
Dopo lunghi mesi malati di nebbia e nostalgia, mi ritrovai a vagare come in sogno per le stradine solitarie d’una piccola cittadina ai confini del mondo, oltre l’infinito tedio e la tristezza dei giorni.
Avevo scritto “Lisbona”, inizialmente, sul biglietto Interrail, ma alcune coincidenze mancate, la calura insopportabile delle stazioni; un ghigno stranamente beffardo, intravisto tra la folla di Barcellona, m’avevano di tappa in tappa, quasi inconsapevolmente, ricondotto sempre più a settentrione: Madrid, Parigi, Berlino.
Poi, a Copenhagen, anziché cambiare per Amsterdam, avevo preso quasi per gioco l’espresso notturno per Stoccolma, ma con l’idea di fermarmi soltanto un paio di giorni, per rivedere un amico fotografo.
Non riuscii però a rintracciare il vecchio Olof, al numero 14 di Sybillegatan, e finii per smarrirmi tra le viuzze medioevali e le piazze anguste di Gamla Stan.
Soltanto verso sera, ritrovata d’istinto la via del mare, mi ricordai dell’Ostello Chapman: bianco, spettrale veliero ai margini del porto, dove già m’ero rifugiato due anni prima, ma come a farlo apposta era stato appena occupata l’ultima branda ancora vacante.
Trascorsi così una notte inquieta, vagando lungo docks tetri e nebbiosi, nella perenne mezza luce dell’estate di Svezia.
Intirizzito e trasognato, con tutti i sensi acuiti dall’insonnia, all’alba mi diressi infine verso la ferrovia e in un’improvvisa febbre d’innocenza saltai su un vagone diretto in Norvegia.
Non appena varcato il confine, il giorno successivo, scesi alla prima stazione marittima e m’incamminai nella vasta e luminosa sera del Nord.
Soltanto una settimana di viaggio mi separava dalla mia prigione e già vagavo in estasi per le strade irreali, tra i rami dei pini che lasciavano intravedere ora le alte montagne dalle cime ancora innevate, ora le acque di madreperla del fiordo, sotto nuvole basse, bluastre.
Intanto pensavo allo strano destino che m’aveva nuovamente condotto lassù e mi pareva che la divina leggerezza di quella notte potesse giustificare ogni cosa, tutte le sofferenze passate, ogni dolore a venire: nulla aveva più importanza, oltre a quei pochi istanti di vita, a quella luce che trasfigurava ogni ciottolo della strada, e sentii d’essere finalmente tornato ad abitare la mia stessa anima.
Ai margini della cittadina, mi ritrovai a vagare tra i viali del vecchio cimitero, e incominciai a leggere ombre e silenzi sulle lapidi coperte di muschio. Furono le date, inizialmente, a polarizzare la mia attenzione; cercavo di cogliere delle relazioni, delle connessioni occulte tra i numeri: poi, in un attimo d’ineffabile distacco, iniziai come a intuire frammenti d’immagini, suoni, colori.
Mi parve improvvisamente inconcepibile che qualcuno potesse mai essersi chiamato Jon Arnesen e avesse sposato le trecce bionde d’una certa Lisa Kielland, nella primavera del ’34, per poi naufragare un qualunque numero di anni più tardi, ed essere infine seppellito accanto alle ossa oblunghe e scolorite di lei. Non so perché, ma proprio questo mi dispiacque enormemente: il fatto che, in questo caso, il conto degli anni non mi apparisse affatto importante… E chissà quali enormi e tremanti occhi blu, quale flebile accento poteva aver avuto una bimba, Elin Krund, spentasi a otto anni, nell’Ottobre del ’54, la bocca piena di nebbia salmastra, o quale sardonico ghigno doveva aver abitato il volto del pescatore Folvik, scomparso in un terrore di sangue e d’arpioni (seppi subito anche questo), nell’estate stranamente calda e assolata del ’25 (sì, senza alcun dubbio calda e assolata!).
E poco più lontano, tra i pini e le ombre cupe, un medico sgozzato dai lupi, in tempo di guerra, volti congelati di soldati: una pallida e silenziosa fanciulla fuggita in America e tornata a morire nella stanza dov’era venuta al mondo, con le gote macchiate di rosso e le labbra secche che bruciavano di febbre davanti ai fiori di campo d’una minuscola finestra affacciata sul fiordo.
Quelle vite perdute entravano così a far parte della mia, quasi che un fluido magnetico s’irradiasse dalle vecchie croci in una vertigine di luci, impressioni, stati d’animo; e neppure mi importava sapere se quella fosse la verità o semplici fantasticherie, tanto quelle immagini s’affollavano vive e nitide alla mia mente, come nel flusso allucinatorio d’una lanterna magica dell’irripetibile.
Mi riscossi solo quando udii il brusio sommesso d’una piccola folla che s’era nel frattempo assembrata presso il portale dell’attigua chiesetta di legno. M’accostai e seppi che stava per avere inizio un concerto d’organo. Il programma prevedeva alcuni preludi e corali di Bach, e una composizione che non conoscevo, Weigen Klagen Sorgen Zagen di Liszt.
Presi posto nello spazio oscuro, sotto vetrate policrome, mentre i lenti e austeri uomini del Nord s’incamminavano rigidamente lungo i banchi scricchiolanti.
L’incanto della notte d’estate aveva lasciato solo un tenue abbandono su quei volti concentrati e angolosi, che sembravano appartenere a tempi più antichi, ad ancor più cupi silenzi, e pensai che tutto ciò – l’improvvisa trasparenza d’uno sguardo, la fragile linea di una nuca - non potesse essere senza rapporti con le presenze sottili e vibratili che avevo avvertito poco prima, al cimitero.
I brividi misteriosi si moltiplicavano, le sfere di realtà s’intersecavano: tutto sembrava rimandare a un senso profondo e irraggiungibile.
Intanto l’organista inglese invitava lo sparso pubblico a radunarsi al centro della navata, dove a suo dire l’acustica era assai migliore, ma stranamente nessuno si mosse. Anche le giovani coppie sembravano come discoste tra loro, separate da un velo invisibile di solitudine, da un filo d’oro su un collo di neve, dallo scintillio d’un orecchino di perla.
Allora, dopo un inchino sgraziato, il musicista s’allontanò, rivolgendo le spalle alle poche decine d’occhi azzurrissimi e attenti, e aprì lentamente lo spartito davanti a sé.
Quindi, dopo un interminabile istante, incominciò a suonare.
Fin dalle prime battute, la musica s’impossessò del trasognato viandante che ero finalmente tornato a diventare.
Piuttosto che venire emessa dalle lunghe canne lucenti, essa pareva sgorgare da oscure cavità segrete, come dal profondo della mia stessa anima: ritrovavo, nella dolente purezza di quelle note, tutto il senso del viaggio, il mio essere stralunato, remoto e strano: le sentivo vibrare incontrollabili nel petto, lungo la gola, alle vene dei polsi, prima che potessero invadere lo spazio in un’onda di lancinante bellezza.
Per qualche istante, cercai di lottare contro quell’armonia insostenibile, che tutto a un tratto pervadeva ogni cosa, ma presto finii per cedere, e lasciai che le lacrime iniziassero a bagnarmi il volto come una limpida fonte di dolore.
Al termine d’ogni brano cercavo disperatamente di ritrovare il controllo delle emozioni, le forze che potessero sottrarmi a quell’incantesimo, ma restavo come inchiodato alla panca di legno, in attesa del vortice successivo, che di nuovo mi sprofondava in quella stessa luminosa sofferenza, riconducendomi a me stesso e all’occhio glauco ed enigmatico del mondo.
Il brano sussurrante di Liszt, che concluse il concerto quasi in sordina, m’inquietò in modo diverso e inesplicabile: d’improvviso l’istante si spezzò, le lacrime cessarono e il presente fu offuscato dalle ombre appena percettibili d’un futuro che intuivo denso di sventura.
Per la prima volta seppi che qualcosa di spaventoso mi stava aspettando, lungo il cammino, eppure nulla aveva davvero importanza, al di fuori di quegli attimi e di quella luce, dei pini ora azzurri nell’aria tersa: del sole rosso e freddo tramontato fin quasi a lambire la linea traslucida dell’orizzonte, nel bianco sogno della notte di Norvegia.
Quando feci ritorno al boschetto solitario dove avevo nascosto il sacco da viaggio tra i cespugli, abbracciai un tronco di betulla come un vecchio compagno di fortuna che si sfoglia lentamente nel silenzio dei giorni.
Poi mi distesi sulla rugiadosa terra e guardai semplicemente nel mondo e nella profondità della luce.
M’addormentai nel verde, purificato e finalmente felice, sotto la misteriosa vertigine d’un cielo disperato e cangiante.