Biography, reviews, texts
Broken Images, a presentation by Rino Bertini
Presentation of the retrospective organised by the Creval Foundation (part 1)
03/10/2009
CESARE BEDOGNE’ . IMMAGINI INFRANTE.
Quando entrai per la prima volta in quel luogo che anni prima aveva ospitato un Sanatorio in località Prasomaso, a 1250 m. sulle Alpi Retiche, mi sentii come un visitatore che stava violando un territorio sacro. Ogni passo doveva essere circospetto per paura di alterare lo spirito delle anime che lo abitavano. Fino al 1971 Prasomaso era stato uno dei gioielli per le cure antitubercolari nel nostro arco alpino, qualcosa che ci poteva rimandare a località mitiche come il Sanatorio di Davos, descritto da Thomas Mann nella Montagna incantata, ma ora pareva quasi un luogo di sepoltura. Le antiche strutture mantenevano soltanto il ricordo di ciò che era stato il loro antico splendore; al tempo erano sopravvissuti solo dei simulacri, creature in grado di produrre un’apparenza di qualcosa. Il concetto stesso di simulacro annuncia una dimensione inquieta e vagamente sacrilega inerente al mondo della finzione e legata all’assenza, che ben descrive quello che stavo vedendo. Jean Breaudrillard, nel suo testo sui simulacri, ha coniato per essi una nuova categoria, quella di iperreale, assicurando che in loro presenza, la vecchia realtà non può continuare a esistere: essi tendono un’autentica, addirittura fatale imboscata al reale, e poi si mettono lì, a nascondere surrettiziamente e malignamente la sopravvenuta assenza.
Mentre mi addentravo fra rovine e arbusti che tendevano ad avere il sopravvento su ciò che l’uomo aveva costruito, non mi sarei meravigliato di incontrare un Golem, il gigante d’argilla della tradizione ebraica che ogni trentatré anni ricompare nelle viuzze del ghetto praghese con una sembianza nebbiosa, enigmatica, spettrale, indizio di un’epidemia spirituale che si propaga a periodi, incarnazione di torbidi umori e di oscure psicosi. Al contrario ecco che, furtivamente, si materializza un cane che mi guarda circospetto, unica presenza in quel luogo di spettri. Poi scompare, improvvisamente, senza fare rumore. E io proseguo nel mio percorso fra costruzioni distrutte dal tempo e dal vandalismo dell’uomo. Sembra che una mano violenta e vigliacca abbia voluto, a più riprese, accanirsi su una creatura un tempo bellissima con una forza ed una brutalità incomprensibili. Questo luogo mi appare in tutta la sua desolazione, ormai bazar archeologico, raccoglitore di scarti e rifiuti strappati alla loro origine, carichi di tonalità infernali. Non è un caso che Cesare Bedognè si sia rivolto alle parole di Eliot per trovare un giusto titolo alle sue foto, quelle Immagini infrante tratte dal Seppellimento dei Morti che fa parte dell’incipit della Terra desolata:
Quali radici s’afferrano, quali rami crescono
Su queste rovine di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non lo puoi dire, né immaginare, perché tu conosci
soltanto
Un cumulo di immagini infrante, là dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, e il canto del grillo non dà
ristoro,
E l’arida pietra non dà suono d’acqua.
E non è un caso che La terra desolata ci appaia come un poema apocalittico e iniziatico, di morte e di rigenerazione, in cui anche i rifiuti non sono che i correlativi dell’ansia della fine e dell’abiezione in cui è precipitato l’uomo senza più miti. Una terra desolata, un paesaggio devastato dopo che un fiume melmoso ha trascinato con sé detriti e relitti, in cui sorgono, come monoliti in rovina, suggestioni decadenti. Cesare Bedognè, percependo questi “frammenti” come capaci di una loro vita, quasi come esseri viventi, ha deciso di cristallizzare nelle sue immagini ciò che il tempo e la furia dei vandali ha operato su questa creatura delle Alpi. Lo ha fatto non tanto con la consapevolezza documentaristica del fotografo che vuole cogliere l’attimo, ma piuttosto del poeta che si interroga sul perché sia potuto succedere tutto questo. Mi piace pensare che questo punto di osservazione possa scuotere le coscienze più di tante parole. Peraltro ho sempre pensato che l’immagine fotografica o quella filmica riesca a raccontare l’essenza dell’uomo e lo aiuti a riflettere. E in questo corpo di immagini sul Sanatorio, Cesare è riuscito, attraverso la percezione del tempo e del ritmo che ha impresso, a manifestare la propria individualità. Il ritmo, come ci ha insegnato Tarkovskij, non si inventa, non si costruisce con procedimenti arbitrari, puramente intellettualistici. Il ritmo nasce organicamente, in relazione con la percezione della vita immanente nell’artista, in relazione con la sua “ricerca del tempo”. Il tempo nell’inquadratura deve scorrere indipendentemente e dignitosamente, e in tal caso le idee si disporranno senza affanno e agitazione. La sensazione della ritmicità di un’inquadratura é affine alla sensazione che provoca una parola piena di verità in letteratura. Ed è per questo che tutte le trentasette foto che compongono questo poema fotografico sul Sanatorio di Prasomaso sanno dare un senso che va al di della capacità, pur lodevole, di raccontare un luogo, ma, come mi racconta Cesare, si pongono oltremodo il perché di un enigma. Forse proprio in questa domanda che sottende un interrogarsi sulle pieghe più profonde del proprio essere , sta il perché Cesare sia andato sin lassù a realizzare i suoi scatti. Le risposte stanno tutte in quelle immagini, infrante, perché il filo rosso che le unisce è rappresentato da una frammentazione dell’essere architettonico e dello stato interiore di chi lo ritrae, poetizzandolo sì, ma con lo strazio e con la fragilità del proprio animo. Ecco allora il perchè di tanti vetri rotti, di tanti specchi che non riflettono più nulla se non echi di immagini fuori fuoco, di tanti intonaci corrosi dall’umidità.
La prima fotografia che Cesare Bedognè mi ha mostrato è proprio quella di un vetro infranto dentro una cornice di finestra il cui intonaco è andato via via sgretolandosi. Di questo vetro rimangono ormai poche scaglie acuminate che resistono, non cedono all’insidia del tempo, e là in fondo ad un corridoio lungo e vuoto si staglia una luce, una delle tante che si muovono dentro le immagini dell’artista. Non colgo alcun senso di redenzione o speranza in essa, solo la necessità di un silenzio su cui anche lo spettatore tenderà ad interrogarsi.
Una delle immagini più enigmatiche ritrae uno specchio che nulla ormai riflette se non un frammento di luce nel margine inferiore. Sta lì, appeso a un’ enorme parete abitata da sottili arbusti che testimoniano la necessità della natura di riappropriarsi di luoghi che un tempo le erano propri e che ora disegnano con tocchi delicati, arabeschi su un intonaco antico. Ma il fulcro della fotografia è proprio quello specchio che, se da un lato si presenta nella sua semplicità sconcertante, dall’altro è il vero significante di tutta l’opera. Lo è proprio perché non svolge più la sua funzione originaria, ma testimonia, in questa perdita di senso, l’impossibilità di conoscere pienamente noi stessi.
Una tematica che spesso compare nelle foto di Cesare è quella dell’assenza. Più di tutte lo testimonia quella seggiola vuota che compare di profilo in una stanza vuota incorniciata da due ante di finestra fuori fuoco. Una luce si ritaglia un piccolo spazio sul pavimento proprio sotto la sedia e illumina alcuni detriti che ci interrogano nuovamente sul perchè di quel non essere più. In assenza di ciò che prima era, rimane solo il silenzio e la percezione del nulla. Si potrebbe dire che tutto il tempo è già estinto; ciò che resta è il tempo di una vita già vissuta.
Potrei soffermarmi sui tanti pannelli intrisi d’umidità ai bordi che il lavoro di anni di consunzione ha reso simili ad opere d’arte. O ancora sui tanti corridoi vuoti, sulle pareti deprivate di ogni piccolo dettaglio decorativo. Sulla stanza di degenza in cui è rimasto solo un letto con le sue vecchie reti; sopra ad esse non più materassi e candide lenzuola, bensì calcinacci, detriti, rifiuti o piuttosto frammenti di quella terra desolata che ci cantava Eliot. Forse rimasugli di una tradizione storica frantumata dal trauma dell’inciviltà e dell’incuria e che ora convergono nell’ordinato disordine di un lettino d’ospedale come pezzi d’una rassegna archeologica. E fra scaglie di vetro e frammenti di specchi, alcune foto sembrano aprirsi all’esterno quasi a voler dialogare con l’immagine dei pini che circondano i brandelli architettonici del sanatorio e con la vista delle Orobie che si stagliano sullo sfondo. Ma vorrei, come conclusione a questo excursus di opere su Prasomaso, fare poche riflessioni sull’immagine di quel teatro che sta dentro l’ex sanatorio, con le sue sedie ancora tutte presenti, anche se usurate dal tempo. Le sedie sono vuote ma per il fotografo lo spettacolo è rimasto, rappresentato da quella luce che si proietta sul muro, dietro il palcoscenico. Ad animarlo non ci sono più attori ma pochi oggetti arrugginiti in attesa di….sì, con Becket si potrebbe dire di un Godot che non giungerà mai e l’attesa sarà vana non solo per il domani, ma per sempre.
Rino Bertini
CESARE BEDOGNE’. BROKEN IMAGES.
When I entered for the first time the former Prasomaso Sanatorium, located at 1250 metres upon the sea level, in the Rethical Alps, I felt as a visitor who was violating a sacred territory. Each step had to be circumspect, lest the spirit of the souls dwelling in there should be disturbed. Until 1971 Prasomaso had been one of the jewels of antitubercular therapy in the whole Alpine region, recalling mythical places such as the Davos Sanatorium described by Thomas Mann in The Magic Mountain, but it almost seems now a burial ground. The old structures kept only a vague trace of their ancient splendour; only a simulacrum had survived, a creature producing the appearance of something. The concept of simulacrum foreshadows a disturbing and vaguely sacrilegious dimension inherent to the world of fiction and connected to absence, which well describes what I was experiencing back then. Jean Breaudrillard, in his text on simulacra, has invented a new category for them, the hyper-real, assuring that in their presence the old reality cannot hold on: they even lay a fatal ambush to The Real, remaining surrepticiously and maliciously there, hiding thus the suddenly arrived absence.
While I penetrated into ruins and shrubs that seemed to get the upper hand of what was once built by man, I would not have been surprised in meeting a Golem, the giant made of clay of the Jewish tradition that every thirty three years reappears in the narrow alleys of the Prague Ghetto with a nebolous, enigmatic, spectral semblance, sign of the spreading of a spiritual epidemic, incarnation of gloomy moods and obscure psychosis. On the contrary, a dog unexpectedtly and furtively materialises, staring warily at me, the only presence in a place of ghosts. Then he suddenly disappears, silently. And I go on my way among constructions ravaged by time and by the vandalism of man. It seems that a violent and wretched hand had shown no pity for a creature that was very beautiful once, with an incomprehensible force and brutality. The place appears in all its desolation, almost an archeological bazar by now, gatherer of rubbish and left-overs pulled out from their origin and charged with infernal undertones. It is not by chance that Cesare Bedogne’ has used the words of Eliot to find an appropriate title for this series of photographs, Broken Images, excerpted from The Burial of the Dead, belonging to the incipit of The Waste Land:
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water.
And it is not by chance that The Waste Land appears to us as an apocalyptic and initiatical poem of death and rebirth, in which rubbish is but a correlative for the anxiety of the end and for the abjection that swallowed a man without myths. A waste land, a devastated landscape, after a muddy river has dragged along wrecks and debris, where decadent fascinations rise as decayed monoliths. Cesare Bedogne’, perceiving these “fragments” as capable of having a life of their own, almost as living beings, crystallized in his images what time and the fury of the vandals have done to this creature of the Alps. He has not so much worked with the documentaristic awareness of a photographer willing to seize the moment, but rather as a poet who wonders why all that could ever have happened. I would like to think that this point of view could shake the consciousness more than many words. Besides I have always thought that photographic or filmic images can reveal the essence of man and help him reflecting. And in this series of images Cesare succeeded, through his perception of time and the rhythm imprinted thereby, to reveal his own individuality. The rhythm, as Tarkovskij taught us, cannot be invented; it cannot be constructed arbitrarily by means of purely intellectual devices. The rhythm is rather born organically in relation with the artist’s own perception of life and with his personal “search for time”. The time of the shot has to flow independently and with dignity; only then the ideas will be displayed without anxiety and exertion. The feelings conveyed by a rhythmical shot are alike to the ones evoked by words full of truth in literature. That’s why all the thirty seven images composing this photographical poem on the Prasomaso Sanatorium go far beyond the capability, which is also praiseworthy, of narrating a place but, as Cesare told me, they mostly attempt to investigate the reason of an enigma. Maybe what led Cesare upthere to take his shots is ultimately a quest for the revelation of what is most personal, intimate about the human soul. The answers are all enclosed within those images, broken because what binds them togheter is a fragmentation of both the architectural being and the inner state of the portrayer, who has certainly poeticezed the place, but with all the grief and fragility of his own being. That’s why there are so many shattered glasses, so many mirrors reflecting nothing but echoes of blurred images, so many corroded plasters.
In the first photograph that Cesare Bedogne’ has shown me, a shattered glass is enclosed within a window frame whose paint has gradually crumbled. What is left of this glass are but a few sharp splinters, still resisting, not surrendering to the snares of time. Beyond the glass, at the end of a long and empty corridor, a light stands out; one of the many lights in the artist’s photographs. But I do not find any sense of redemption nor hope in this light, only the necessity of a silence that is likely to address the spectators as well.
One of the most enigmatic images portrays a mirror that reflects nothing but a light spot in its lower edge. It hangs in an enormous wall inhabited by slender shrubs that seem to have been delicately drawn as an arabesque on the ancient plaster, testifying to the need of nature of reappropriating a place that had once been its own. But the focal point of this photograph is just this mirror which, while presenting itself in its disconcerting simplicity, is also the true signifier of the whole work. This is because it does not perform its original function anymore but rather witnesses a loss of meaning, the impossibility of knowing completely our selves.
Absence is another theme often appearing in Cesare’s photographs. This is conveyed for instance by that empty chair profiling in an empty room, framed by two windows out of focus. A light gleams on the floor, just under that chair, and illuminates a few broken things addressing us again on the reason of that not being there anymore. In lack of what was there before, only silence and the perception of nothingness do remain. One could even say that all time is exstinguished ; what is left is the time of a life that has been lived already.
I could also linger on the many panels soaked by humidity at their borders, almost transformed into works of art by years of consumption. Or on the many empty corridors and the many walls deprived of even the slightest decorative detail. Or the room where only a single bed remains with its old wire netting; there is no mattress nor candid sheets above but rubble, ruins and debris, or rather fragments of that waste land that was sung by Eliot. Maybe remains of an historical tradition fragmented by the trauma of incivility and carelessness, converging in the orderly disorder of a hospital bed, as pieces from an archeological exhibition. And, among glass splinters and mirror fragments, some photographs seem to open up to the exterior, as if wishing to establish a dialogue with the pine trees surrounding the architectural shreds of the Sanatorium and with the Orobic mountains standing out in the background. I would like to conclude this excursus on the Prasomaso photographs with some reflections on the image of the old Sanatorium’s theatre, with all its chairs still there, albeit ravaged by time. The chairs are empty but for the photographer the show goes on, represented by that light on the wall, behind the stage. There are no actors anymore to breathe life into that but only a few rusty things waiting for...yes, with Becket we could say waiting for a Godot who will never come and this wait will be vain not only for tomorrow, but forever.
Rino Bertini
Quando entrai per la prima volta in quel luogo che anni prima aveva ospitato un Sanatorio in località Prasomaso, a 1250 m. sulle Alpi Retiche, mi sentii come un visitatore che stava violando un territorio sacro. Ogni passo doveva essere circospetto per paura di alterare lo spirito delle anime che lo abitavano. Fino al 1971 Prasomaso era stato uno dei gioielli per le cure antitubercolari nel nostro arco alpino, qualcosa che ci poteva rimandare a località mitiche come il Sanatorio di Davos, descritto da Thomas Mann nella Montagna incantata, ma ora pareva quasi un luogo di sepoltura. Le antiche strutture mantenevano soltanto il ricordo di ciò che era stato il loro antico splendore; al tempo erano sopravvissuti solo dei simulacri, creature in grado di produrre un’apparenza di qualcosa. Il concetto stesso di simulacro annuncia una dimensione inquieta e vagamente sacrilega inerente al mondo della finzione e legata all’assenza, che ben descrive quello che stavo vedendo. Jean Breaudrillard, nel suo testo sui simulacri, ha coniato per essi una nuova categoria, quella di iperreale, assicurando che in loro presenza, la vecchia realtà non può continuare a esistere: essi tendono un’autentica, addirittura fatale imboscata al reale, e poi si mettono lì, a nascondere surrettiziamente e malignamente la sopravvenuta assenza.
Mentre mi addentravo fra rovine e arbusti che tendevano ad avere il sopravvento su ciò che l’uomo aveva costruito, non mi sarei meravigliato di incontrare un Golem, il gigante d’argilla della tradizione ebraica che ogni trentatré anni ricompare nelle viuzze del ghetto praghese con una sembianza nebbiosa, enigmatica, spettrale, indizio di un’epidemia spirituale che si propaga a periodi, incarnazione di torbidi umori e di oscure psicosi. Al contrario ecco che, furtivamente, si materializza un cane che mi guarda circospetto, unica presenza in quel luogo di spettri. Poi scompare, improvvisamente, senza fare rumore. E io proseguo nel mio percorso fra costruzioni distrutte dal tempo e dal vandalismo dell’uomo. Sembra che una mano violenta e vigliacca abbia voluto, a più riprese, accanirsi su una creatura un tempo bellissima con una forza ed una brutalità incomprensibili. Questo luogo mi appare in tutta la sua desolazione, ormai bazar archeologico, raccoglitore di scarti e rifiuti strappati alla loro origine, carichi di tonalità infernali. Non è un caso che Cesare Bedognè si sia rivolto alle parole di Eliot per trovare un giusto titolo alle sue foto, quelle Immagini infrante tratte dal Seppellimento dei Morti che fa parte dell’incipit della Terra desolata:
Quali radici s’afferrano, quali rami crescono
Su queste rovine di pietra? Figlio dell’uomo,
Tu non lo puoi dire, né immaginare, perché tu conosci
soltanto
Un cumulo di immagini infrante, là dove batte il sole,
E l’albero morto non dà riparo, e il canto del grillo non dà
ristoro,
E l’arida pietra non dà suono d’acqua.
E non è un caso che La terra desolata ci appaia come un poema apocalittico e iniziatico, di morte e di rigenerazione, in cui anche i rifiuti non sono che i correlativi dell’ansia della fine e dell’abiezione in cui è precipitato l’uomo senza più miti. Una terra desolata, un paesaggio devastato dopo che un fiume melmoso ha trascinato con sé detriti e relitti, in cui sorgono, come monoliti in rovina, suggestioni decadenti. Cesare Bedognè, percependo questi “frammenti” come capaci di una loro vita, quasi come esseri viventi, ha deciso di cristallizzare nelle sue immagini ciò che il tempo e la furia dei vandali ha operato su questa creatura delle Alpi. Lo ha fatto non tanto con la consapevolezza documentaristica del fotografo che vuole cogliere l’attimo, ma piuttosto del poeta che si interroga sul perché sia potuto succedere tutto questo. Mi piace pensare che questo punto di osservazione possa scuotere le coscienze più di tante parole. Peraltro ho sempre pensato che l’immagine fotografica o quella filmica riesca a raccontare l’essenza dell’uomo e lo aiuti a riflettere. E in questo corpo di immagini sul Sanatorio, Cesare è riuscito, attraverso la percezione del tempo e del ritmo che ha impresso, a manifestare la propria individualità. Il ritmo, come ci ha insegnato Tarkovskij, non si inventa, non si costruisce con procedimenti arbitrari, puramente intellettualistici. Il ritmo nasce organicamente, in relazione con la percezione della vita immanente nell’artista, in relazione con la sua “ricerca del tempo”. Il tempo nell’inquadratura deve scorrere indipendentemente e dignitosamente, e in tal caso le idee si disporranno senza affanno e agitazione. La sensazione della ritmicità di un’inquadratura é affine alla sensazione che provoca una parola piena di verità in letteratura. Ed è per questo che tutte le trentasette foto che compongono questo poema fotografico sul Sanatorio di Prasomaso sanno dare un senso che va al di della capacità, pur lodevole, di raccontare un luogo, ma, come mi racconta Cesare, si pongono oltremodo il perché di un enigma. Forse proprio in questa domanda che sottende un interrogarsi sulle pieghe più profonde del proprio essere , sta il perché Cesare sia andato sin lassù a realizzare i suoi scatti. Le risposte stanno tutte in quelle immagini, infrante, perché il filo rosso che le unisce è rappresentato da una frammentazione dell’essere architettonico e dello stato interiore di chi lo ritrae, poetizzandolo sì, ma con lo strazio e con la fragilità del proprio animo. Ecco allora il perchè di tanti vetri rotti, di tanti specchi che non riflettono più nulla se non echi di immagini fuori fuoco, di tanti intonaci corrosi dall’umidità.
La prima fotografia che Cesare Bedognè mi ha mostrato è proprio quella di un vetro infranto dentro una cornice di finestra il cui intonaco è andato via via sgretolandosi. Di questo vetro rimangono ormai poche scaglie acuminate che resistono, non cedono all’insidia del tempo, e là in fondo ad un corridoio lungo e vuoto si staglia una luce, una delle tante che si muovono dentro le immagini dell’artista. Non colgo alcun senso di redenzione o speranza in essa, solo la necessità di un silenzio su cui anche lo spettatore tenderà ad interrogarsi.
Una delle immagini più enigmatiche ritrae uno specchio che nulla ormai riflette se non un frammento di luce nel margine inferiore. Sta lì, appeso a un’ enorme parete abitata da sottili arbusti che testimoniano la necessità della natura di riappropriarsi di luoghi che un tempo le erano propri e che ora disegnano con tocchi delicati, arabeschi su un intonaco antico. Ma il fulcro della fotografia è proprio quello specchio che, se da un lato si presenta nella sua semplicità sconcertante, dall’altro è il vero significante di tutta l’opera. Lo è proprio perché non svolge più la sua funzione originaria, ma testimonia, in questa perdita di senso, l’impossibilità di conoscere pienamente noi stessi.
Una tematica che spesso compare nelle foto di Cesare è quella dell’assenza. Più di tutte lo testimonia quella seggiola vuota che compare di profilo in una stanza vuota incorniciata da due ante di finestra fuori fuoco. Una luce si ritaglia un piccolo spazio sul pavimento proprio sotto la sedia e illumina alcuni detriti che ci interrogano nuovamente sul perchè di quel non essere più. In assenza di ciò che prima era, rimane solo il silenzio e la percezione del nulla. Si potrebbe dire che tutto il tempo è già estinto; ciò che resta è il tempo di una vita già vissuta.
Potrei soffermarmi sui tanti pannelli intrisi d’umidità ai bordi che il lavoro di anni di consunzione ha reso simili ad opere d’arte. O ancora sui tanti corridoi vuoti, sulle pareti deprivate di ogni piccolo dettaglio decorativo. Sulla stanza di degenza in cui è rimasto solo un letto con le sue vecchie reti; sopra ad esse non più materassi e candide lenzuola, bensì calcinacci, detriti, rifiuti o piuttosto frammenti di quella terra desolata che ci cantava Eliot. Forse rimasugli di una tradizione storica frantumata dal trauma dell’inciviltà e dell’incuria e che ora convergono nell’ordinato disordine di un lettino d’ospedale come pezzi d’una rassegna archeologica. E fra scaglie di vetro e frammenti di specchi, alcune foto sembrano aprirsi all’esterno quasi a voler dialogare con l’immagine dei pini che circondano i brandelli architettonici del sanatorio e con la vista delle Orobie che si stagliano sullo sfondo. Ma vorrei, come conclusione a questo excursus di opere su Prasomaso, fare poche riflessioni sull’immagine di quel teatro che sta dentro l’ex sanatorio, con le sue sedie ancora tutte presenti, anche se usurate dal tempo. Le sedie sono vuote ma per il fotografo lo spettacolo è rimasto, rappresentato da quella luce che si proietta sul muro, dietro il palcoscenico. Ad animarlo non ci sono più attori ma pochi oggetti arrugginiti in attesa di….sì, con Becket si potrebbe dire di un Godot che non giungerà mai e l’attesa sarà vana non solo per il domani, ma per sempre.
Rino Bertini
CESARE BEDOGNE’. BROKEN IMAGES.
When I entered for the first time the former Prasomaso Sanatorium, located at 1250 metres upon the sea level, in the Rethical Alps, I felt as a visitor who was violating a sacred territory. Each step had to be circumspect, lest the spirit of the souls dwelling in there should be disturbed. Until 1971 Prasomaso had been one of the jewels of antitubercular therapy in the whole Alpine region, recalling mythical places such as the Davos Sanatorium described by Thomas Mann in The Magic Mountain, but it almost seems now a burial ground. The old structures kept only a vague trace of their ancient splendour; only a simulacrum had survived, a creature producing the appearance of something. The concept of simulacrum foreshadows a disturbing and vaguely sacrilegious dimension inherent to the world of fiction and connected to absence, which well describes what I was experiencing back then. Jean Breaudrillard, in his text on simulacra, has invented a new category for them, the hyper-real, assuring that in their presence the old reality cannot hold on: they even lay a fatal ambush to The Real, remaining surrepticiously and maliciously there, hiding thus the suddenly arrived absence.
While I penetrated into ruins and shrubs that seemed to get the upper hand of what was once built by man, I would not have been surprised in meeting a Golem, the giant made of clay of the Jewish tradition that every thirty three years reappears in the narrow alleys of the Prague Ghetto with a nebolous, enigmatic, spectral semblance, sign of the spreading of a spiritual epidemic, incarnation of gloomy moods and obscure psychosis. On the contrary, a dog unexpectedtly and furtively materialises, staring warily at me, the only presence in a place of ghosts. Then he suddenly disappears, silently. And I go on my way among constructions ravaged by time and by the vandalism of man. It seems that a violent and wretched hand had shown no pity for a creature that was very beautiful once, with an incomprehensible force and brutality. The place appears in all its desolation, almost an archeological bazar by now, gatherer of rubbish and left-overs pulled out from their origin and charged with infernal undertones. It is not by chance that Cesare Bedogne’ has used the words of Eliot to find an appropriate title for this series of photographs, Broken Images, excerpted from The Burial of the Dead, belonging to the incipit of The Waste Land:
What are the roots that clutch, what branches grow
Out of this stony rubbish? Son of man,
You cannot say, or guess, for you know only
A heap of broken images, where the sun beats,
And the dead tree gives no shelter, the cricket no relief,
And the dry stone no sound of water.
And it is not by chance that The Waste Land appears to us as an apocalyptic and initiatical poem of death and rebirth, in which rubbish is but a correlative for the anxiety of the end and for the abjection that swallowed a man without myths. A waste land, a devastated landscape, after a muddy river has dragged along wrecks and debris, where decadent fascinations rise as decayed monoliths. Cesare Bedogne’, perceiving these “fragments” as capable of having a life of their own, almost as living beings, crystallized in his images what time and the fury of the vandals have done to this creature of the Alps. He has not so much worked with the documentaristic awareness of a photographer willing to seize the moment, but rather as a poet who wonders why all that could ever have happened. I would like to think that this point of view could shake the consciousness more than many words. Besides I have always thought that photographic or filmic images can reveal the essence of man and help him reflecting. And in this series of images Cesare succeeded, through his perception of time and the rhythm imprinted thereby, to reveal his own individuality. The rhythm, as Tarkovskij taught us, cannot be invented; it cannot be constructed arbitrarily by means of purely intellectual devices. The rhythm is rather born organically in relation with the artist’s own perception of life and with his personal “search for time”. The time of the shot has to flow independently and with dignity; only then the ideas will be displayed without anxiety and exertion. The feelings conveyed by a rhythmical shot are alike to the ones evoked by words full of truth in literature. That’s why all the thirty seven images composing this photographical poem on the Prasomaso Sanatorium go far beyond the capability, which is also praiseworthy, of narrating a place but, as Cesare told me, they mostly attempt to investigate the reason of an enigma. Maybe what led Cesare upthere to take his shots is ultimately a quest for the revelation of what is most personal, intimate about the human soul. The answers are all enclosed within those images, broken because what binds them togheter is a fragmentation of both the architectural being and the inner state of the portrayer, who has certainly poeticezed the place, but with all the grief and fragility of his own being. That’s why there are so many shattered glasses, so many mirrors reflecting nothing but echoes of blurred images, so many corroded plasters.
In the first photograph that Cesare Bedogne’ has shown me, a shattered glass is enclosed within a window frame whose paint has gradually crumbled. What is left of this glass are but a few sharp splinters, still resisting, not surrendering to the snares of time. Beyond the glass, at the end of a long and empty corridor, a light stands out; one of the many lights in the artist’s photographs. But I do not find any sense of redemption nor hope in this light, only the necessity of a silence that is likely to address the spectators as well.
One of the most enigmatic images portrays a mirror that reflects nothing but a light spot in its lower edge. It hangs in an enormous wall inhabited by slender shrubs that seem to have been delicately drawn as an arabesque on the ancient plaster, testifying to the need of nature of reappropriating a place that had once been its own. But the focal point of this photograph is just this mirror which, while presenting itself in its disconcerting simplicity, is also the true signifier of the whole work. This is because it does not perform its original function anymore but rather witnesses a loss of meaning, the impossibility of knowing completely our selves.
Absence is another theme often appearing in Cesare’s photographs. This is conveyed for instance by that empty chair profiling in an empty room, framed by two windows out of focus. A light gleams on the floor, just under that chair, and illuminates a few broken things addressing us again on the reason of that not being there anymore. In lack of what was there before, only silence and the perception of nothingness do remain. One could even say that all time is exstinguished ; what is left is the time of a life that has been lived already.
I could also linger on the many panels soaked by humidity at their borders, almost transformed into works of art by years of consumption. Or on the many empty corridors and the many walls deprived of even the slightest decorative detail. Or the room where only a single bed remains with its old wire netting; there is no mattress nor candid sheets above but rubble, ruins and debris, or rather fragments of that waste land that was sung by Eliot. Maybe remains of an historical tradition fragmented by the trauma of incivility and carelessness, converging in the orderly disorder of a hospital bed, as pieces from an archeological exhibition. And, among glass splinters and mirror fragments, some photographs seem to open up to the exterior, as if wishing to establish a dialogue with the pine trees surrounding the architectural shreds of the Sanatorium and with the Orobic mountains standing out in the background. I would like to conclude this excursus on the Prasomaso photographs with some reflections on the image of the old Sanatorium’s theatre, with all its chairs still there, albeit ravaged by time. The chairs are empty but for the photographer the show goes on, represented by that light on the wall, behind the stage. There are no actors anymore to breathe life into that but only a few rusty things waiting for...yes, with Becket we could say waiting for a Godot who will never come and this wait will be vain not only for tomorrow, but forever.
Rino Bertini