Biography, reviews, texts
A note by Giovanni Bettini (after the Creval exhibition in Sondrio)
19/11/2009
(...) Le foto esposte a Palazzo Sertoli mi hanno riportato ad anni fa, quando ero salito al Sanatorio di Prasomaso, entro una ricerca di immagini diverse rispetto agli stereotipi di una valle turistica. Il viottolo sconnesso che si staccava dalla strada mi aveva introdotto nel bosco che lambisce e insidia la grande facciata Sud, facendola a malapena intravvedere. Ero entrato attraverso una finestra “infranta” e subito l’intensità espressa da quell’interno mi aveva cancellato l’intento documentario sociale, catturandomi totalmente sul piano emotivo. Sia pure entro una dimensione dilettantesca la mia digitale si era messa a registrare emozioni. Mi colpiva il fatto che le aperture tra gli spazi interni e le finestre verso l’esterno erano inquadrature ad alta espressività, con le loro sconnessioni, incorniciando e filtrando microcosmi stupefacenti. I vetri alle finestre mi apparivano spezzati dal tempo secondo un disegno tragico-estetico. Poi un ampio pavimento tappezzato di documenti sanitari mi aveva ricondotto a esplorare la storica funzionalità sanitaria. Poi di nuovo un tuffo nell’atmosfera emozionale, con la scoperta del cinema-teatro nell’edificio basso, oltre il giardino interno sfatto. Il tempo dell’abbandono e del silenzio aveva trasformato la funzionale macchina per spettacoli in uno spettacolo metafisico particolarissimo. Tornai all’esterno con il mio safari fotografico, poi rinchiuso in una scatola e inutilizzato. Era subentrato uno strano senso di colpa, genere a cui non sono avvezzo, sentendo di avere compiuto una sorta di clandestina autopsia estetica dentro il cadavere del sanatorio.
Le tue “immagini infrante”, in rigoroso bianco e nero, a formato quadrato, sono ben altra cosa. Gli scatti sono frutto di una raffinata indagine alla quale è seguito un lavoro accuratissimo in laboratorio. I tuoi istanti fotografici si confrontano con il tempo, che in questo caso è il tempo della decadenza. Una decadenza del sanatorio che pure nella sua fisicità rimanda alla decadenza come specifico della dimensione artistica moderna; che mi ricorda le opere di Kubin, di Trakl. Peraltro ero tornato dal sanatorio un po’ come dall’”isola dei morti” di Boecklin. Nelle tue foto la deriva estetica si direbbe scongiurata anche dall’alleggiare di uno sciabordare di sofferenza simmetrica fra fotografo e soggetto.
La purezza delle tue immagini in bianco e nero mi ricorda una delle affermazioni di Marc Augè:
“La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo PURO, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare”.
Giovanni Bettini
Le tue “immagini infrante”, in rigoroso bianco e nero, a formato quadrato, sono ben altra cosa. Gli scatti sono frutto di una raffinata indagine alla quale è seguito un lavoro accuratissimo in laboratorio. I tuoi istanti fotografici si confrontano con il tempo, che in questo caso è il tempo della decadenza. Una decadenza del sanatorio che pure nella sua fisicità rimanda alla decadenza come specifico della dimensione artistica moderna; che mi ricorda le opere di Kubin, di Trakl. Peraltro ero tornato dal sanatorio un po’ come dall’”isola dei morti” di Boecklin. Nelle tue foto la deriva estetica si direbbe scongiurata anche dall’alleggiare di uno sciabordare di sofferenza simmetrica fra fotografo e soggetto.
La purezza delle tue immagini in bianco e nero mi ricorda una delle affermazioni di Marc Augè:
“La vista delle rovine ci fa fugacemente intuire l’esistenza di un tempo che non è quello di cui parlano i manuali di storia o che i restauri cercano di richiamare in vita. E’ un tempo PURO, non databile, assente da questo nostro mondo di immagini, di simulacri e ricostruzioni, da questo nostro mondo violento le cui macerie non hanno più il tempo di diventare rovine. Un tempo perduto che l’arte talvolta riesce a ritrovare”.
Giovanni Bettini