Biography, reviews, texts
A review by Luca Bonetti (in Italian and English)
25/10/2009
Cesare Bedognè
Angkor Vat, Machu Picchu o le “Grotte dei Mille Buddha” di Tun-huang… hanno probabilmente qualcosa in comune con luoghi a pochi passi da casa nostra: i caseggiati scomparsi della vecchia Garberia, il forte di Oga o l’ex-sanatorio di Prasomaso. Molti di noi da ragazzi, come ha ricordato l’assessore alla Cultura Marina Cotelli alla vernice della mostra fotografica di Cesare Bedognè, siamo stati “esploratori” al pari dei vari Antonio da Magdalena, Hiran Binghan o Sir Aurel Stein che ebbero la ventura di visitare o scoprire quelle mitiche città nascoste tra foreste e deserti inaccessibili, e come successe a loro anche i nostri occhi stupiti posarono lo sguardo su rovine che da “da tempo immemore” non conoscevano presenza umana.
“Quando entrai per la prima volta il quel luogo (…) mi sentii come un visitatore che stava violando un territorio sacro”, le parole di Rino Bertini, curatore della mostra, ci introducono al luogo che fa da scenario agli scatti di Bedognè: gli edifici abbandonati dell’ex-sanatorio di Prasomaso. La prima sezione della mostra, allestita presso la Galleria Credito Valtellinese di piazza Quadrivio, espone la serie di stampe del ciclo “Immagini Infrante” che sono state realizzate presso il nosocomio dismesso.
I “reperti” che ancora si possono rinvenire nelle infinite stanze del sanatorio abbandonato sono sempre più rari, le razzie archeologiche sulla “montagna incantata” di Tresivio si sono succedute per quasi quarant’anni e hanno lasciato un paesaggio desolato di vuoti, assenze che, come spiega Bertini nel catalogo dedicato alla mostra, diventano la cifra stilistica dell’opera di Bedognè.
È proprio con questi deserti di immagine che il fotografo riesce ad evocare, più che a documentare, i fantasmi di un passato ormai esaurito, le lame di luce sugli scenari spogli evidenziano con i loro contrasti un silenzio assoluto, l’esatto opposto dell’animata realtà che popolava quei luoghi. Due immagini, fra le tante, Rino Bertini prende a emblema della nuova natura di simulacro che Prasomaso oggi assume: la fotografia di una sedia vuota, sola presenza in una stanza altrettanto disabitata, e quella della sala del teatro che un tempo funzionava all’interno del sanatorio, ora inesorabilmente sospesa in un irreale contrappasso di eterna quiete.
“Fin da quando mi è capitato di attraversarne le soglie per la prima volta, come varchi aperti sull’ignoto, ho riconosciuto il mio paesaggio di desolazione, congelato in un silenzioso crepuscolo: la misteriosa nudità dove l’anima, sola, ritorna a sé stessa. Molte volte sono tornato, nel corso degli anni, ai vecchi stabili in rovina: inseguendo immagini, meditando sulla perdita di una persona amata, inseguendo me stesso. E ogni volta mi imbarcavo in un viaggio la cui destinazione era un dilatarsi della percezione, lo strano momento in cui interno ed esterno, l’osservatore e la cosa osservata, sembrano dissolversi l’uno nell’altro”. Questa altra descrizione del “rito di passaggio” attraverso l’ingresso del sanatorio appartiene all’artista stesso, descrive alla perfezione e ci sintonizza sullo stato d’animo che guidava il suo vagare tra quegli ambienti, comandando, quando era necessario e imprescindibile, lo scatto della macchina fotografica “verso l’unica delle inquadrature possibili”. Proseguendo nel racconto Cesare descrive i corridoi interminabili, “le scale che sembrano condurre solo ad altre scale”, e non riesco a non pensare al fascino delle architetture impossibili ritratte nell’opera grafica di Maurits Cornelis Escher, un paesaggio ritorto entro cui si può errare all’infinito alla ricerca di sé stessi.
Alle Immagini Infrante appartengono anche, e soprattutto, le visioni di finestre, porte, spiragli, vecchi specchi: le aperture si affacciano su altri varchi, oltre, a volte, ne intravediamo di nuovi. Qualche frammento dei vetri rotti riflette ciò che sta dietro lo spettatore, al di là degli squarci appaiono paesaggi incompleti, pareti nude oppure panorami di sola luce abbagliante. Gli specchi sono, ancora, simulacri di loro stessi, non riflettono, liberando così la nostra immaginazione dalla risposta più ovvia, stimolandoci a trovarne altre, più personali, più intime. Quando si scorge un riflesso, questo restituisce immagini di altre entrate, aperte su altri passaggi. E il gioco ricomincia, la realtà si dilata. Lo spettatore/fotografo si affaccia, come faceva il grande bibliotecario cieco Borges, su universi di vertigine, di infinite riflessioni di specchi, di sogni all’interno di altri sogni, che stanno dentro ancora ad altri sogni… è possibile vedere tutti gli universi nello stesso istante, osservare ogni luogo, ogni cosa, ogni attimo accaduto o futuro o presente, è possibile forse, spiando dalla fenditura di un vetro rotto che ci abbaglia con l’affilata lama di luce che lo attraversa. Lo spettatore/fotografo attraversa varchi che permettono l’accesso a dimensioni incognite ancora da esplorare, anche dentro noi stessi. “Allora la luce e la sua purezza, la solitudine di un’assenza, sprofondano negli spazi più crepuscolari della psiche, trovano echi nelle camere della memoria, si riflettono nei molteplici specchi dell’anima”.
Cesare Bedognè riesce a colmare le immagini con i vuoti, e il silenzio assoluto che traspare da quelle atmosfere è assolutamente udibile e comunicativo. “Nulla in Eccesso”, come ribadisce alla fine dell’intervista riportata in catalogo, è l’assioma irrinunciabile al quale tende nella composizione delle sue immagini, l’estrema sintesi, quasi matematica si potrebbe dire, visto il suo curriculum professionale, è la condizione necessaria per non travisare il messaggio e mantenerlo il più possibile fedele all’origine.
Presso gli spazi espositivi del Museo Valtellinese di Storia e Arte sono allestite altre due serie fotografiche: Innerscapes e Leaving. Si tratta di due cicli strettamente correlati anche se apparentemente antitetici nei soggetti: il primo gruppo di fotografie riprende luoghi dove l’artista ha vissuto e si è soffermato, molte sono state realizzate in Olanda e ognuna, come egli stesso afferma, “è quasi un autoritratto”, in Leaving sono invece impressi gli “orizzonti del viaggio”, sono queste immagini di passaggio che il fotografo ha voluto fermare lungo i suoi tragitti attraverso il mondo, “solitudine, leggerezza e nostalgia – sull’ansia e l’ebbrezza del viandante”.
Innerscapes e Leaving sono i primi progetti organici su cui Cesare ha lavorato, nel corso di più di un decennio, due cicli che hanno occupato l’inizio della sua passione per la fotografia e hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo della sua poetica, all’affinarsi della tecnica, a delineare la sua originale cifra stilistica.
Quasi ogni scatto si compone di più soggetti, vi compaiono i luoghi del vissuto siano essi quelli della vita “stanziale” o le tappe transitorie dei suoi percorsi, mostrano altre presenze, attraverso riflessi, giochi d’ombre o di luce, sovrapposizioni di immagini. Luoghi e cose si dispiegano, i riflessi non definiti accennano nuovi indizi, compare anche il Fotografo, forse solo la sua ombra, il suo simulacro. È ancora il fotografo/spettatore che contemplando e fermando nello scatto una parte del mondo lo fa proprio, vi si fonde, vi si identifica e come cosa propria ce lo restituisce perché possa raccontarci di lui, meglio di ogni parola.
Ogni volta che visito una mostra porto sempre a casa, idealmente, alcune opere per il mio “museo personale”, siano esse miniature di pochi centimetri o sculture monumentali da svariate tonnellate…, questa volta toccherà all’Immagine infranta 15, a Leaving 23 e a Leaving 14.
Il primo scatto mostra una parete spoglia di un ambiente di Prasomaso, in penombra due tubature che scendono dall’alto, promesse, impossibili da mantenere, di un’acqua che non verrà mai più. A terra uno squarcio di luce apre nuove prospettive, nuove dimensioni.
Innerscapes 12 è stata scattata nelle Alpi svizzere, è l’acqua di un torrente -fiume?- nero e nitido come uno specchio di ossidiana, più attraente di quanto sia inquietante, non si vede, ma da qualche parte deve esserci, il corpo di Ofelia, ondeggiante tra i suoi veli.
Leaving 7 è invece uno scorcio di New-York, un vicolo ingabbiato da molti confini che difendono, racchiudono, demarcano -chissà perchè?- relitti e piccoli deserti urbani.
Cesare Bedognè
Angkor Vat, Machu Picchu or the Caves of the Thousand Buddha’s of Tun-huang…probably have something in common with places at our doorstep, like the disappeared blocks of the old Garberia, the fortress of Oga or the ruined Prasomaso Sanatorium.
Many of us, as recalled by the Culture Councillor Marina Cotelli at the opening of the photo exhibition of Cesare Bedognè, have been “explorers”, like the various Antonio da Magdalena, Hiran Binghan or Sir Aurel Stein who had the chance to visit or discover those mythical towns concealed by forests and inaccessible deserts, and as it happened to them our amazed eyes also gazed upon ruins that have not known any human presence “since unrecorded times”.
“When I entered that place for the first time (….) I felt as a visitor who was violating a sacred territory”, the words of Rino Bertini, Curator of the exhibition, introduce us to the setting of the shots of Cesare Bedognè: the abandoned edifices of the former Sanatorium. The first section of the exhibition, set up at the Creval Foundation Gallery in Piazza Quadrivio, displays a series of prints from the cycle “Broken Images”, taken in the deserted hospital.
The “finds” that can still be discovered in the infinite rooms of the decaying Sanatorium are more and more rare, the archaeological raids upon the Tresivio’s “magic mountain” followed one another for almost forty years, leaving behind a landscape of emptiness, of absences, that – as explained by Bertini in the catalogue of the exhibition - can be interpreted as the criterion of style of the whole Bedognè’s photographic oeuvre.
It is just through these desert of images that the photographer succeeds to evoke, rather than document, the phantoms of a vanished world; some blades of light on a barren sceneries give evidence, with their contrast, of an absolute silence; just the opposite of the animated reality that populated those places once. According to Rino Bertini two images, among many others, epitomise the novel nature of simulacrum that the former Sanatorium comes now to represent: the photograph of an empty chair, the only presence in an equally barren room, and the picture of the old Sanatorium theatre, now inexorably suspended in an unreal retaliation of eternal stillness.
“When I crossed its corroded threshold for the first time, as a doorway to the unknown, I recognised my landscape of desolation, stilled in a frozen twilight: the mysterious bareness where the soul, alone, returns to itself. I returned to the old hospital many times, over the years: stalking for images, brooding over the loss of a loved one, stalking for the inner self. And each time I embarked on a journey whose destination was a dilation of perception: the strange moment when interior and exterior, the seer and the sight, seem to dissolve one in another”. This is another description of the “ritual of passage” that came to be performed through the broken Sanatorium doorways, belonging to the artist himself, and it perfectly describes the mood that drove his roaming through that desolate ambience, ordering, when necessary, the movement of the camera “towards the only possible shot”. Continuing to tell his tale, Cesare describes then the interminable corridors, the “stairs leading only to other flights of stairs”, and I cannot avoid thinking of the impossible architectures portrayed in the graphic work of Maurits Cornelis Escher, a distorted landscape where one roams endlessly in quest of the inner self.
Other visions of windows, doors, small crevices, old mirrors belong to the Broken Images: the openings lead to other passages beyond which we sometimes glimpse still another opening. Fragments of shattered glass reflect what is behind the spectator, incomplete landscapes do appear beyond the gashes, naked walls or panoramas of sheer blinding light. The mirrors are, again, simulacrums of themselves; they do not reflect, liberating thus our imagination from the most obvious answer and stimulating us to find a more personal, more intimate one. When one glimpses at a reflection, the latter returns images of other doorways, opening towards other passages. And the game starts all over, reality dilates. The spectator/photographer overlooks, as the great blind librarian of Borges, universes of vertigo, infinite mirror images, dreams enclosed within other dreams, that in their turn are enclosed within yet different dreams…it is possible to see all universes at the same instant, to observe every place, every single thing, every moment already happened or present or future: it is perhaps possible, spying behind the fissure of a broken glass, blinding us with a sharp blade of light passing through. The spectator/photographer crosses openings that give access to unknown dimensions still to be explored, also inside ourselves. “Then the light and its purity, the solitude of an absence, suddenly sink into the twilight regions of the psyche, echo in the chambers of memory, reflect in the innumerable mirrors of the soul”.
Cesare Bedognè succeeds in filling his images with hollows, and the absolute silence that shines through them is clearly audible. “Nothing in Excess”, as he reaffirms at the end of the interview reproduced in the catalogue, is the indispensable axiom ruling his compositions; this extreme synthesis, almost mathematical one could say, remembering for a moment his background, is the necessary condition for not distorting the message, to keep it faithful to its origin.
Other two photographic series are on display at the exhibiting spaces of the Museum of History and Art: Innerscapes and Leaving. They are two tightly interwoven bodies of work, albeit apparently antithetic in their subject matter: the first cycle of photographs portrays cities and places where the artist has lived; many have been taken in the Netherlands and each one of them, as the photographer himself underlines, is almost a self portrait. The “horizons of travelling” are imprinted instead in the Leaving series; images of transience that the photographer has caught along the roads of the world, attempting to crystallise the “solitude, lightness, nostalgia; the anxiety and elation of the wanderer”.
Innerscapes and Leaving are the first organic projects on which Cesare has worked, throughout about a decade, two cycles that carry the initial imprint of his passion for photography and contributed in a decisive way to the developments of his poetic, to the sharpening of his technique, to delineate the originality of his style.
Almost every shot is composed by several different subject matters, worn out places appearing either as timeless rooms or as transitory halts along his ways; showing other presences, through reflections, patterns of light and shadow, overlapping of images. Things and places thus reveal themselves, undefined reflections hint at new clues; sometimes the Photographer also appears, maybe only through his shadow, or his simulacrum. It is again the photographer/spectator who, contemplating and stilling in his shot a fragment of life, makes it his own by merging into it, identifying with it and returning it to us as something that can tell us of himself better than any word.
Every time I visit an exhibition I bring home, ideally, some works for my own “personal museum”, sometimes miniatures of a few centimetres, other times monumental sculptures weighing several tonnes…., this time it is the case of Broken Images 15, Leaving 23 and Leaving 14.
The first shot shows us a barren wall in a Sanatorium room, in the shade two pipes descend from above; promises, impossible to keep, of a water that will come no more. On the floor splinters of light open new perspectives, new dimensions.
Leaving 23 was taken in the Swiss Alps, it is the water of a torrent- river?- sharp and black like a mirror of obsidian, more attractive than disquieting; one cannot see it, but there must be the corpse of Ophelia somewhere, floating among her veils.
Leaving 14 is instead a glimpse of New York, an alley caged by many borders that defend, enclose, delimit – goodness knows why – a landscape of wrecks and small urban deserts.
Angkor Vat, Machu Picchu o le “Grotte dei Mille Buddha” di Tun-huang… hanno probabilmente qualcosa in comune con luoghi a pochi passi da casa nostra: i caseggiati scomparsi della vecchia Garberia, il forte di Oga o l’ex-sanatorio di Prasomaso. Molti di noi da ragazzi, come ha ricordato l’assessore alla Cultura Marina Cotelli alla vernice della mostra fotografica di Cesare Bedognè, siamo stati “esploratori” al pari dei vari Antonio da Magdalena, Hiran Binghan o Sir Aurel Stein che ebbero la ventura di visitare o scoprire quelle mitiche città nascoste tra foreste e deserti inaccessibili, e come successe a loro anche i nostri occhi stupiti posarono lo sguardo su rovine che da “da tempo immemore” non conoscevano presenza umana.
“Quando entrai per la prima volta il quel luogo (…) mi sentii come un visitatore che stava violando un territorio sacro”, le parole di Rino Bertini, curatore della mostra, ci introducono al luogo che fa da scenario agli scatti di Bedognè: gli edifici abbandonati dell’ex-sanatorio di Prasomaso. La prima sezione della mostra, allestita presso la Galleria Credito Valtellinese di piazza Quadrivio, espone la serie di stampe del ciclo “Immagini Infrante” che sono state realizzate presso il nosocomio dismesso.
I “reperti” che ancora si possono rinvenire nelle infinite stanze del sanatorio abbandonato sono sempre più rari, le razzie archeologiche sulla “montagna incantata” di Tresivio si sono succedute per quasi quarant’anni e hanno lasciato un paesaggio desolato di vuoti, assenze che, come spiega Bertini nel catalogo dedicato alla mostra, diventano la cifra stilistica dell’opera di Bedognè.
È proprio con questi deserti di immagine che il fotografo riesce ad evocare, più che a documentare, i fantasmi di un passato ormai esaurito, le lame di luce sugli scenari spogli evidenziano con i loro contrasti un silenzio assoluto, l’esatto opposto dell’animata realtà che popolava quei luoghi. Due immagini, fra le tante, Rino Bertini prende a emblema della nuova natura di simulacro che Prasomaso oggi assume: la fotografia di una sedia vuota, sola presenza in una stanza altrettanto disabitata, e quella della sala del teatro che un tempo funzionava all’interno del sanatorio, ora inesorabilmente sospesa in un irreale contrappasso di eterna quiete.
“Fin da quando mi è capitato di attraversarne le soglie per la prima volta, come varchi aperti sull’ignoto, ho riconosciuto il mio paesaggio di desolazione, congelato in un silenzioso crepuscolo: la misteriosa nudità dove l’anima, sola, ritorna a sé stessa. Molte volte sono tornato, nel corso degli anni, ai vecchi stabili in rovina: inseguendo immagini, meditando sulla perdita di una persona amata, inseguendo me stesso. E ogni volta mi imbarcavo in un viaggio la cui destinazione era un dilatarsi della percezione, lo strano momento in cui interno ed esterno, l’osservatore e la cosa osservata, sembrano dissolversi l’uno nell’altro”. Questa altra descrizione del “rito di passaggio” attraverso l’ingresso del sanatorio appartiene all’artista stesso, descrive alla perfezione e ci sintonizza sullo stato d’animo che guidava il suo vagare tra quegli ambienti, comandando, quando era necessario e imprescindibile, lo scatto della macchina fotografica “verso l’unica delle inquadrature possibili”. Proseguendo nel racconto Cesare descrive i corridoi interminabili, “le scale che sembrano condurre solo ad altre scale”, e non riesco a non pensare al fascino delle architetture impossibili ritratte nell’opera grafica di Maurits Cornelis Escher, un paesaggio ritorto entro cui si può errare all’infinito alla ricerca di sé stessi.
Alle Immagini Infrante appartengono anche, e soprattutto, le visioni di finestre, porte, spiragli, vecchi specchi: le aperture si affacciano su altri varchi, oltre, a volte, ne intravediamo di nuovi. Qualche frammento dei vetri rotti riflette ciò che sta dietro lo spettatore, al di là degli squarci appaiono paesaggi incompleti, pareti nude oppure panorami di sola luce abbagliante. Gli specchi sono, ancora, simulacri di loro stessi, non riflettono, liberando così la nostra immaginazione dalla risposta più ovvia, stimolandoci a trovarne altre, più personali, più intime. Quando si scorge un riflesso, questo restituisce immagini di altre entrate, aperte su altri passaggi. E il gioco ricomincia, la realtà si dilata. Lo spettatore/fotografo si affaccia, come faceva il grande bibliotecario cieco Borges, su universi di vertigine, di infinite riflessioni di specchi, di sogni all’interno di altri sogni, che stanno dentro ancora ad altri sogni… è possibile vedere tutti gli universi nello stesso istante, osservare ogni luogo, ogni cosa, ogni attimo accaduto o futuro o presente, è possibile forse, spiando dalla fenditura di un vetro rotto che ci abbaglia con l’affilata lama di luce che lo attraversa. Lo spettatore/fotografo attraversa varchi che permettono l’accesso a dimensioni incognite ancora da esplorare, anche dentro noi stessi. “Allora la luce e la sua purezza, la solitudine di un’assenza, sprofondano negli spazi più crepuscolari della psiche, trovano echi nelle camere della memoria, si riflettono nei molteplici specchi dell’anima”.
Cesare Bedognè riesce a colmare le immagini con i vuoti, e il silenzio assoluto che traspare da quelle atmosfere è assolutamente udibile e comunicativo. “Nulla in Eccesso”, come ribadisce alla fine dell’intervista riportata in catalogo, è l’assioma irrinunciabile al quale tende nella composizione delle sue immagini, l’estrema sintesi, quasi matematica si potrebbe dire, visto il suo curriculum professionale, è la condizione necessaria per non travisare il messaggio e mantenerlo il più possibile fedele all’origine.
Presso gli spazi espositivi del Museo Valtellinese di Storia e Arte sono allestite altre due serie fotografiche: Innerscapes e Leaving. Si tratta di due cicli strettamente correlati anche se apparentemente antitetici nei soggetti: il primo gruppo di fotografie riprende luoghi dove l’artista ha vissuto e si è soffermato, molte sono state realizzate in Olanda e ognuna, come egli stesso afferma, “è quasi un autoritratto”, in Leaving sono invece impressi gli “orizzonti del viaggio”, sono queste immagini di passaggio che il fotografo ha voluto fermare lungo i suoi tragitti attraverso il mondo, “solitudine, leggerezza e nostalgia – sull’ansia e l’ebbrezza del viandante”.
Innerscapes e Leaving sono i primi progetti organici su cui Cesare ha lavorato, nel corso di più di un decennio, due cicli che hanno occupato l’inizio della sua passione per la fotografia e hanno contribuito in modo determinante allo sviluppo della sua poetica, all’affinarsi della tecnica, a delineare la sua originale cifra stilistica.
Quasi ogni scatto si compone di più soggetti, vi compaiono i luoghi del vissuto siano essi quelli della vita “stanziale” o le tappe transitorie dei suoi percorsi, mostrano altre presenze, attraverso riflessi, giochi d’ombre o di luce, sovrapposizioni di immagini. Luoghi e cose si dispiegano, i riflessi non definiti accennano nuovi indizi, compare anche il Fotografo, forse solo la sua ombra, il suo simulacro. È ancora il fotografo/spettatore che contemplando e fermando nello scatto una parte del mondo lo fa proprio, vi si fonde, vi si identifica e come cosa propria ce lo restituisce perché possa raccontarci di lui, meglio di ogni parola.
Ogni volta che visito una mostra porto sempre a casa, idealmente, alcune opere per il mio “museo personale”, siano esse miniature di pochi centimetri o sculture monumentali da svariate tonnellate…, questa volta toccherà all’Immagine infranta 15, a Leaving 23 e a Leaving 14.
Il primo scatto mostra una parete spoglia di un ambiente di Prasomaso, in penombra due tubature che scendono dall’alto, promesse, impossibili da mantenere, di un’acqua che non verrà mai più. A terra uno squarcio di luce apre nuove prospettive, nuove dimensioni.
Innerscapes 12 è stata scattata nelle Alpi svizzere, è l’acqua di un torrente -fiume?- nero e nitido come uno specchio di ossidiana, più attraente di quanto sia inquietante, non si vede, ma da qualche parte deve esserci, il corpo di Ofelia, ondeggiante tra i suoi veli.
Leaving 7 è invece uno scorcio di New-York, un vicolo ingabbiato da molti confini che difendono, racchiudono, demarcano -chissà perchè?- relitti e piccoli deserti urbani.
Cesare Bedognè
Angkor Vat, Machu Picchu or the Caves of the Thousand Buddha’s of Tun-huang…probably have something in common with places at our doorstep, like the disappeared blocks of the old Garberia, the fortress of Oga or the ruined Prasomaso Sanatorium.
Many of us, as recalled by the Culture Councillor Marina Cotelli at the opening of the photo exhibition of Cesare Bedognè, have been “explorers”, like the various Antonio da Magdalena, Hiran Binghan or Sir Aurel Stein who had the chance to visit or discover those mythical towns concealed by forests and inaccessible deserts, and as it happened to them our amazed eyes also gazed upon ruins that have not known any human presence “since unrecorded times”.
“When I entered that place for the first time (….) I felt as a visitor who was violating a sacred territory”, the words of Rino Bertini, Curator of the exhibition, introduce us to the setting of the shots of Cesare Bedognè: the abandoned edifices of the former Sanatorium. The first section of the exhibition, set up at the Creval Foundation Gallery in Piazza Quadrivio, displays a series of prints from the cycle “Broken Images”, taken in the deserted hospital.
The “finds” that can still be discovered in the infinite rooms of the decaying Sanatorium are more and more rare, the archaeological raids upon the Tresivio’s “magic mountain” followed one another for almost forty years, leaving behind a landscape of emptiness, of absences, that – as explained by Bertini in the catalogue of the exhibition - can be interpreted as the criterion of style of the whole Bedognè’s photographic oeuvre.
It is just through these desert of images that the photographer succeeds to evoke, rather than document, the phantoms of a vanished world; some blades of light on a barren sceneries give evidence, with their contrast, of an absolute silence; just the opposite of the animated reality that populated those places once. According to Rino Bertini two images, among many others, epitomise the novel nature of simulacrum that the former Sanatorium comes now to represent: the photograph of an empty chair, the only presence in an equally barren room, and the picture of the old Sanatorium theatre, now inexorably suspended in an unreal retaliation of eternal stillness.
“When I crossed its corroded threshold for the first time, as a doorway to the unknown, I recognised my landscape of desolation, stilled in a frozen twilight: the mysterious bareness where the soul, alone, returns to itself. I returned to the old hospital many times, over the years: stalking for images, brooding over the loss of a loved one, stalking for the inner self. And each time I embarked on a journey whose destination was a dilation of perception: the strange moment when interior and exterior, the seer and the sight, seem to dissolve one in another”. This is another description of the “ritual of passage” that came to be performed through the broken Sanatorium doorways, belonging to the artist himself, and it perfectly describes the mood that drove his roaming through that desolate ambience, ordering, when necessary, the movement of the camera “towards the only possible shot”. Continuing to tell his tale, Cesare describes then the interminable corridors, the “stairs leading only to other flights of stairs”, and I cannot avoid thinking of the impossible architectures portrayed in the graphic work of Maurits Cornelis Escher, a distorted landscape where one roams endlessly in quest of the inner self.
Other visions of windows, doors, small crevices, old mirrors belong to the Broken Images: the openings lead to other passages beyond which we sometimes glimpse still another opening. Fragments of shattered glass reflect what is behind the spectator, incomplete landscapes do appear beyond the gashes, naked walls or panoramas of sheer blinding light. The mirrors are, again, simulacrums of themselves; they do not reflect, liberating thus our imagination from the most obvious answer and stimulating us to find a more personal, more intimate one. When one glimpses at a reflection, the latter returns images of other doorways, opening towards other passages. And the game starts all over, reality dilates. The spectator/photographer overlooks, as the great blind librarian of Borges, universes of vertigo, infinite mirror images, dreams enclosed within other dreams, that in their turn are enclosed within yet different dreams…it is possible to see all universes at the same instant, to observe every place, every single thing, every moment already happened or present or future: it is perhaps possible, spying behind the fissure of a broken glass, blinding us with a sharp blade of light passing through. The spectator/photographer crosses openings that give access to unknown dimensions still to be explored, also inside ourselves. “Then the light and its purity, the solitude of an absence, suddenly sink into the twilight regions of the psyche, echo in the chambers of memory, reflect in the innumerable mirrors of the soul”.
Cesare Bedognè succeeds in filling his images with hollows, and the absolute silence that shines through them is clearly audible. “Nothing in Excess”, as he reaffirms at the end of the interview reproduced in the catalogue, is the indispensable axiom ruling his compositions; this extreme synthesis, almost mathematical one could say, remembering for a moment his background, is the necessary condition for not distorting the message, to keep it faithful to its origin.
Other two photographic series are on display at the exhibiting spaces of the Museum of History and Art: Innerscapes and Leaving. They are two tightly interwoven bodies of work, albeit apparently antithetic in their subject matter: the first cycle of photographs portrays cities and places where the artist has lived; many have been taken in the Netherlands and each one of them, as the photographer himself underlines, is almost a self portrait. The “horizons of travelling” are imprinted instead in the Leaving series; images of transience that the photographer has caught along the roads of the world, attempting to crystallise the “solitude, lightness, nostalgia; the anxiety and elation of the wanderer”.
Innerscapes and Leaving are the first organic projects on which Cesare has worked, throughout about a decade, two cycles that carry the initial imprint of his passion for photography and contributed in a decisive way to the developments of his poetic, to the sharpening of his technique, to delineate the originality of his style.
Almost every shot is composed by several different subject matters, worn out places appearing either as timeless rooms or as transitory halts along his ways; showing other presences, through reflections, patterns of light and shadow, overlapping of images. Things and places thus reveal themselves, undefined reflections hint at new clues; sometimes the Photographer also appears, maybe only through his shadow, or his simulacrum. It is again the photographer/spectator who, contemplating and stilling in his shot a fragment of life, makes it his own by merging into it, identifying with it and returning it to us as something that can tell us of himself better than any word.
Every time I visit an exhibition I bring home, ideally, some works for my own “personal museum”, sometimes miniatures of a few centimetres, other times monumental sculptures weighing several tonnes…., this time it is the case of Broken Images 15, Leaving 23 and Leaving 14.
The first shot shows us a barren wall in a Sanatorium room, in the shade two pipes descend from above; promises, impossible to keep, of a water that will come no more. On the floor splinters of light open new perspectives, new dimensions.
Leaving 23 was taken in the Swiss Alps, it is the water of a torrent- river?- sharp and black like a mirror of obsidian, more attractive than disquieting; one cannot see it, but there must be the corpse of Ophelia somewhere, floating among her veils.
Leaving 14 is instead a glimpse of New York, an alley caged by many borders that defend, enclose, delimit – goodness knows why – a landscape of wrecks and small urban deserts.